oggiacente a tutte le opere di Tolkien è la filologia, sia dal
lato professionale che per il puro amore per linguaggio e parole.
Suono e tono di certi linguaggi ed opere presero il cuore di Tolkien
letteralmente d'assalto. Fu il caso del Gotico; fu tale col Finnico,
al quale il suo inventato linguaggio elfico Quenya rassomiglia,
e fu tale col Gallese, il quale ispirò il suo linguaggio Sindarin.
Linguaggi, e non di rado singoli vocaboli da soli lo ispirarono
grandemente per la sua narrativa; invero, "egli pensava che le idee
gli pervenissero [...] attraverso le ascose risonanze di
nomi e linguaggi" (Shippey, 263; mio corsivo). Questo è il
luogo in cui la filologia entra in gioco. Tolkien era grandemente
interessato alle parole ed alla loro storia - si legga la loro etimologia
- e ciò espresse nella narrativa. In tal modo, egli tentò di introdurre
il mondo delle parole che apprezzava tanto sia entro un contesto
mitologico che entro un'ambientazione storica che presentò come
fatto. Per citare egli stesso: "Mi piace la storia, e sono commosso
da essa, ma i suoi migliori momenti per me sono quelli in cui si
fa luce su parole e nomi" (Shippey, 62). Siccome non era
questo il caso che si desse così di sovente, egli tentò di correggersi,
dando nomi e vocaboli a storie che naturalmente egli dapprima aveva
inventato, dal momento che alcunché d'altro sarebbe andato contro
i suoi propri principi se avesse assunto che un linguaggio fosse
esistito prima dei nostri tempi - ma che effettivamente non lo fu
mai. Per tali linguaggi inventati, la storia nella sua narrativa
è secondaria, minore in importanza che non nel processo di creazione
in cui i linguaggi erano primari; la sua narrativa fu sviluppata
come un metodo per presentarli. Come egli stesso ammise, "Le ´storie´
furono piuttosto ideate a fornire un mondo per i linguaggi che non
l'inverso!" (Shippey, 22; citato da Letters of J.R.R.
Tolkien, ed. Humphrey Carpenter, 219).
Assieme a ciò la credenza di Tolkien in un "intimo valore" dei linguaggi;
era convinto che "le persone possano avvertire la storia nelle parole,
possano riconoscere gli stili dei linguaggi, possano estrarre senso
dal suono soltanto" (Shippey, 104). Qui Tolkien potrebbe
trarre conclusioni da sé su quello che altri pensino, ma per lui
probabilmente esistette un linguaggio nel quale ogni cosa aveva
il suo proprio, rispettivo e vero nome, perfettamente adatto e intelligibile
ad ognuno. Tali assunti sono espressi nel personaggio di Tom Bombadil,
che fu, simil-Adamo, il primo a dare ad ogni cosa il suo confacente
nome, isomorfo con la realtà.
Tutto questo insieme spiega l'opinione di Tolkien che la sua opera
fosse "in larga misura un saggio in estetica linguistica." (Shippey,
104; citato da Letters of J.R.R. Tolkien, ed. Humphrey Carpenter,
220). All'apparenza Tolkien gradiva realmente usare "nomi parlanti".
Ossia, tutti i predecessori di Éomer erano chiamati con qualche
termine Anglosassone per "re", oppure il nome di Gandalf "nel Sud"
era Incanus, Latino per canuto. Un altro esempio, trascurato
nelle varie opere di seri autori e critici, è il nome del Vecchio
Tuc, il più anziano hobbit di sempre: Gerontius non significa altro
che "alla maniera di un uomo molto anziano"[3].
In ogni caso, il significato descrive chi è nominato, e "metter
nome è conoscere" (Moseley, 54).
La profondità, qualità che Tolkien valutò per la maggior parte in
ogni opera, è, a parte i suoi linguaggi inventati, principalmente
conseguita dai nomi che danno contributo a persone ed oggetti. A
formare un contrasto con la letteratura - che Tolkien vedeva come
opposto dell'antico spirito contenuto nell'anticaa letteratura inglese,
non da meno il suo assai adorato poema epico Beowulf - sua
mira fu di utilizzare la filologia - quel che chiamò "lo speciale
fardello delle lingue Nordiche, [...] lo speciale vantaggio che
possiedono quanto a disciplina" (Shippey, 8) - allo scopo
di ridestare tale spirito. Così, non sorprendentemente, l'intera
sua narrativa è edificata sulle parole, sull'etimologia, la filologia.
Egli derivò una gran quantità del suo cosmo solamente dalle tradizioni,
gli antichi racconti di Elfi, Nani, Ent e Dragoni che volle presentare;
e siccome erano fatti filologici, è comprensibile che, nonostante
la sua mescolanza di poesia con filologia, l'esito narrativo regga
un certo grado di realismo. Altri nomi, per esempio i nomi di luogo
nella Contea, hanno controparti esistenti, principalmente nella
regione sulla quale la Contea fu più o meno esattamente modellata,
i.e. i dintorni del Worcestershire. In tal proposito, vi sono due
divergenti tipi di nomi nella Terra di Mezzo: nomi sui quali fu
inventata una storia, un personaggio oppure un luogo ("I nomi generano
sempre una storia nella mia mente" (Shippey,60), disse Tolkien);
e quelli che recano un nome dato dopo la loro invenzione;
quantunque nell'ultimo caso sia possibile che l'autore avesse tale
idea, tale nome, in mente fin dal principio.
Il Signore degli Anelli agisce esattamente in conformità
con il principio di Tolkien per cui "la parola narra la storia"
(Shippey,15), come egli ammise in una delle sue lettere (comp.
Shippey, 15); il principio per cui un'etichetta dice molto a
chi la sa lunga. Un filologo - tale come Tolkien medesimo - dovrebbe
riconoscere il significato nascosto di persone e luoghi rivelato
nei loro nomi, e l'importanza di tale nome-significato non
è da sottostimarsi. Se il nome, "etichetta", e la percezione divergono,
entrambi dovrebbero essere tenuti in conto. È probabile che Tolkien
abbia dato alla prima la priorità; come è con Aragorn, in realtà
Elessar, la "Elfica-stella"[4],
che appare cupo e probabilmente malevolo al primo incontro. Ma qui
le linee del poema sono provvidenziali per scoprirne l'indole: "Non
tutto quell ch'è oro brilla / Né gli erranti sono perduti.". Qui,
come T. A. Shippey faceva notare: "la credenza di Tolkien era ´che
la parola autentica l'oggetto´" (Shippey,51; mio corsivo).
In conclusione, per come stanno le cose effettivamente l'intero Signore degli Anelli fu fondato sulla base della filologia, e l'ispirazione che Tolkien trasse dalle parole, ed è logico che non si possa seguire il modo di pensare di Tolkien senza tener conto di ciò come uno dei più fondanti fattori per lui e le sue opere. Virtualmente, "non v'è divisione tra la filologia di Tolkien e la sua narrativa." (Moseley, 1).
[3] Va detto che, agli occhi di un lettore
italiano, tale caratteristica dei nomi latini dovrebbe risultare
tanto più intuibile quanto il senso di Baggins rende l'idea, per
il lettore anglofono, dell'opulenza della stirpe di Bilbo: si veda
la nota introduttiva di Quirino Principe nell'edizione pubblicata
di SdA.
[4] "Gemma elfica" nell'edizione italiana.
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