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L'incanto della Terra di Mezzo

Prefazione all'Erbario di Tolkien di Paolo Gulisano

Oltre la Contea e i suoi hobbit, oltre Mordor e il suo Oscuro Sire, oltre le sbalorditive torri di Minas Tirith con i suoi regali occupanti, c'è la Terra di Mezzo, il mondo che John Ronald Tolkien immaginò e popolò di personaggi, di storie, di vicende, ma che ebbe anche l'attenzione e la cura di descrivere in tutti i suoi particolari, non ultimi quelli botanici. Si possono contare ne Il Signore degli Anelli ben 64 citazioni di piante: un numero piuttosto elevato – ed inusuale – per un romanzo epico.

Vi troviamo descritta la flora comune europea, accanto a quelle erbe e piante frutto della sconfinata fantasia del professore inglese: athelas, elanor, lebethron, mallorn e altro ancora. Tolkien amava profondamente la natura, e in particolare provava un grande affetto per gli alberi, tanto che una delle sue ultime immagini fotografiche, scattata poco tempo prima di morire, lo mostra seduto accanto ad un vecchio albero, in un atteggiamento di affettuosa complicità. L'amore per gli alberi era nato nel suo cuore fin da bambino, quando giocava felice nei prati del borgo di Sarehole, nei pressi di Birmingham, dove viveva accanto ad un antico e misterioso mulino. In quei pochi ettari di terra verde, di cespugli, di alberi frondosi, tra piccole radure e nel silenzio rotto solo dal rumore dell'acqua di un ruscello, il piccolo Tolkien iniziò a concepire i suoi mondi fantastici, la Contea ma anche Boscoatro, Granburrone e Lorien. Un brutto giorno vennero le ruspe a distruggere il piccolo Eden di Sarehole, ma l'amore per gli alberi non lasciò mai il cuore di Tolkien.

Un amore che non divenne mai idolatria: il nostro riconosceva nel Creato l'impronta straordinaria del Creatore. Amare la natura significa amare Dio, e farsene custodi e difensori significa prendere le parti del progetto divino, un disegno buono per il quale la fantasia dell'Onnipotente si è prodigata nel produrre bellezza, colori, profumi, sapori.

Un amore mai idealizzato: Tolkien sapeva bene, e ce lo descrive con efficace realismo nel corso del romanzo, che la natura non è solo buona, ma può essere crudele e pericolosa, ed è bene conoscerla.

L'attenzione che l'autore de Il Signore degli Anelli pone per i particolari botanici della sua Terra di Mezzo non sono dunque casuali, come non lo è lo scontro tra i custodi di essa (hobbit, elfi, ent) e coloro che la vogliono distruggere, manipolare, pervertire.

Il ricordo degli avidi speculatori, dei cementificatori di Birmingham che avevano devastato il mondo della sua infanzia prese forma soprattutto nel personaggio di Saruman. Ecco come ce lo descrive Barbalbero, il pastore di alberi: «Ha un cervello fatto di metallo e di ingranaggi: nulla gli importa di ciò che cresce, se non gli serve in un'occasione immediata» (p. 578). Ciò che cresce è invece importan-te, è bello, utile e prezioso: è l'incanto della Terra di Mezzo. Lo stesso Barbalbero innalza un poetico canto, un'elegia ai boschi, ai loro suoni, ai loro profumi, ai loro colori, a tutto ciò davanti al quale si esclama con gioia: «E bello!». C'è, nella natura, un utile non sempre immediato, come pretende Saruman, ma che va atteso, coltivato pazientemente. Lo sa bene Aragorn, l'eroe della pazienza, della lunga attesa, che usa della foglia della pianta chiamata Athelas per guarire, insieme al suo regale tocco di guarigione, il morente Faramir, in una delle scene più struggenti e potenti del libro. Un uso saggio della natura, delle sue piante, delle sue erbe, può curare ferite e malattie. La flora non è solo bella a vedersi e gradevole per lo spirito, ma è anche una fornitrice di rimedi taumaturgici.

Per secoli, dall'antichità e dal medioevo in particolare, la conoscenza delle proprietà terapeutiche delle erbe riuscì non solo a lenire i mali, ma anche a fornire dei criteri orientativi per comprendere cosa significassero la salute e la malattia, nel lungo cammino che l'uomo ha fatto tentando di dare risposta al problema della malattia e della sofferenza. Se la medicina è un'arte e non un semplice mestiere, lo è proprio perché è chiamata, più che a risolvere, ad assestare creativamente equilibri divenuti precari, come afferma un adagio francese del XV secolo: «Curare qualche volta, alleviare spesso, confortare sempre».

Nelle tolkieniane Case di Guarigione vediamo applicata una concezione della Medicina intesa come prendersi cura, che si fa carico, con piena consapevolezza, della sofferenza che incontra, della malattia e della morte.

Tolkien instilla nel suo romanzo la sua profonda pietas cristiana, la tenerezza quasi francescana che provava nei confronti di tutte le creature. La compassione generata dal realistico prendere visione di come il mondo è fatto, bello ma caduco, affascinante ma soggetto alla caduta e alla distruzione. C'è nelle pagine di Tolkien la stessa consapevolezza di uno dei più grandi pensatori cattolici del Novecento, Romano Guardini, che scriveva: «Quel che ferisce è ciò che nella vita vi è di ineluttabile: la sofferenza diffusa ovunque, la sofferenza degli inermi e dei deboli; la sofferenza degli animali, della creatura muta… il fatto che non vi si può cambiare nulla, che non si può toglierla di mezzo. Così è e così sarà. E qui sta la gravità della cosa».

Se il mondo è dunque segnato dalla sofferenza, il compito del curare ha ogni giorno a che fare con una lotta, contro il male e la malattia, che attacca il corpo e lo spirito. Il compito di Aragorn, ma anche di Gandalf, di Galadriel, fino al piccolo giardiniere Sam, è quello di riordinare ogni cosa dalla sua origine, così da plasmare una società vivente all'interno di una società morente. Un compito che può avvalersi anche di antiche e misteriose conoscenze, dei segni e dei gesti di un'antica sapienza, di una forza antica quanto il mondo. Nella Terra di Mezzo la si può trovare nelle foreste, ognuna delle quali, oltre che un nome, sembra possedere proprie qualità specifiche; la si incontra nelle piante, nelle erbe, nelle foglie, nei grandi alberi, nei loro frutti.

L'amore di Tolkien per gli alberi aveva un substrato profondamente religioso, la spiritualità intensa e mistica dei suoi progenitori sassoni, che avevano prodotto un poema, Il sogno della Croc e, del X secolo, dove si glorifica l'albero dal quale è stata tratta la croce che ha portato il corpo del Cristo. Gli alberi erano sempre stati sacri, per un'umanità attenta ai simboli come quella antica: dall'Albero della conoscenza biblico, agli alberi delle mitologie greche o germaniche.

L'albero è simbolo della vita, ma è anche l'asse del mondo, che collega il cielo alla terra. Frassino o ulivo, o la quercia sacra dei Celti, l'albero da sempre protende i suoi rami verso gli astri, verso l'alto. Le cattedrali gotiche del medioevo videro crescere al loro interno colonnati dalla forma di alberi, marmoree foreste sotto le quali alzare la propria lode a Dio, come un tempo era stato fatto nei boschi.

L'albero sta a significare un cosmo vivente, che in un ciclo continuo di stagioni, di fioritura e avvizzimento, senza fine rinnova se stesso. Quando l'uomo era più saggio e attento a ciò che cresceva intorno a sé, questo incanto misterioso non finiva di stupirlo.

Infine, Tolkien disegna un mondo dove il quale ogni singola foglia è importante, perché fa parte del disegno di un Grande Albero. A margine della grande epica dell'Anello, Tolkien scrisse infatti un racconto breve, enigmatico e commovente: Foglia di Niggl e. È la storia di un omino di nome Niggle, un pittore che dedica tutto il suo tempo ad un quadro, cominciato con una foglia e poi diventato un albero, cresciuto protendendo innumerevoli rami e allungando le proprie radici.

Poi, piano piano, oltre le cime dei rami l'immaginazione di Niggle aveva cominciato a intravedere altre terre, e montagne ricoperte di neve. Una certa critica tolkieniana da anni esalta, monotematicamente e monotonamente, l'immagine delle «radici profonde che non gelano».

Ma è lo stesso professore di Oxford, in questo racconto, a dirci chiaramente che le radici non bastano, e a nulla vale preservarsi dal freddo, se non per dare fiori e frutti, e che lo sguardo deve andare ancora oltre, a frugare tra gli orizzonti lontani.

Niggle non riesce a portare a conclusione il suo quadro, vinto dal proprio mai soddisfatto perfezionismo, e anche dalla sua simpatica pigrizia. Ma un giorno egli deve fare un viaggio, così come gli era stato preannunciato, un lungo misterioso viaggio. Arrivato a destinazione,

ecco davanti ai suoi occhi un albero, il suo albero, così come avrebbe voluto realizzarlo, vivo, con le foglie che si aprono e i rami che si piegano al vento. «È un dono!» esclama. Niggle non avrebbe

potuto dire nulla di più esatto: l'albero era un dono, con ogni sua foglia, con ogni suo ramo.

Ancora una volta Tolkien ci stupisce: l'autore della grande epica del Novecento è anche il cantore della bellezza delle cose piccole, del gratuito, di ciò che è donato e del quale l'umanità, afflitta dalla tremenda maledizione della dimenticanza, si scorda tanto spesso, precipitando così nell'infelicità.

Dall'amore di Tolkien per tutto ciò che cresce dalla terra, fiore o pianta o albero che sia, al lettore giunge un grande e affascinante invito: quello di dedicare la propria attenzione a quanto di Bello e Buono c'è al mondo, e diventarne appassionati cultori e custodi.

 

PAOLO GULISANO

 

© Pubblicato per gentile concessione dell'Ancora edizioni. Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata.

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