38 a.C.: battaglia di Cheronea.
I Greci vengono sconfitti dalle falangi macedoni di Filippo e sono costretti a unirsi ad una lega che di fatto è controllata dalla Macedonia. Il baluardo della libertà dell'Ellade, strenuamente difeso da Demostene, è crollato.
Le pòleis perdono inevitabilmente la loro importanza: non sono più il fervido centro politico e culturale, simbolo della sfaccettata grandezza della Grecia, ma semplicemente un anello all'interno di un nuovo grande ingranaggio, il regno di Macedonia. E l'uomo greco non è più civis, cittadino che attivamente partecipa alla vita della città, ma se ne vede ormai tagliato fuori, per il semplice fatto che quella realtà a misura d'uomo ormai non esiste più. Veniva distrutto infatti quel valore fondamentale della vita spirituale della Grecia classica, la polis -che Platone e Aristotele consideravano la forma ideale di stato perfetto- che costituiva il punto di riferimento anche dell'agire morale.
"E così il pensiero greco, non vedendo una positiva alternativa alla polis, si rifugiò nell'ideale del "cosmopolitismo", considerando il mondo intero una Città, fino al punto da includere in questa cosmopolis non solo gli uomini ma anche gli dèi" (Storia della filosofia, Reale - Antiseri).
Le divinità sono ormai sorde alle rassegnate preghiere degli uomini, che non possono far altro che cercare conforto nella reciproca assistenza. Nasce così il concetto di "filantropia", questa simpatia, questa affinità di sentimenti che lega gli uomini e che li porta a capire che sono tutti in balia del Caso.
"Homo sum: humani nihil alienum a me puto " (Terenzio)
Sono un uomo: nulla di ciò che è umano è a me estraneo
Ed è proprio da queste coordinate socio-culturali che nasce il concetto di "provvidenza". Ci fu una scuola di pensiero, in età ellenistica, che si oppose alla visione dell'uomo e del mondo come un casuale aggregato di atomi, propugnata dall'Epicureismo; questa scuola fu la Stoà. Gli Stoici contrapposero all'atomismo epicureo la visione di un mondo come risultato di un'azione divina.
Nella filosofia della Stoà ci sono due principi dell'universo, uno passivo (la materia) e uno attivo (la forma), inscindibili l'uno dall'altro. La forma è Ragione divina, Logos , Dio, che come un "soffio infuocato" (pnèuma) tutto penetra e tutto trasforma. Dio è dunque immanente e permea di sé tutte le cose: è il seme di tutte le cose. Contro il meccanicismo degli Epicurei, gli Stoici difendono una rigorosa concezione finalistica. "Infatti, se tutte le cose sono prodotte dall'immanente principio divino, che è Logos, intelligenza e ragione, tutto è rigorosamente e profondamente razionale, tutto è come la ragione vuole che sia, tutto è come deve essere e come è bene che sia [.]; le singole cose, pur essendo in sé considerate imperfette, hanno la loro perfezione nel disegno del tutto" (op.cit. Reale - Antiseri).
La divinità provvede a che ogni cosa raggiunga il fine per cui esiste: essa è dunque Provvidenza (Prònoia). Ma la Provvidenza stoica non ha nulla a che vedere con quella cristiana (che da questa prende le mosse), la quale presuppone un atto di creazione - sconosciuto ai Greci - da parte di un Dio personale. La provvidenza stoica, immanente e non trascendente come quella cristiana, è semplice finalismo universale, in quanto è ciò che fa sì che ogni cosa sia fatta come è bene e come è meglio che sia. Inoltre, essa si configura come "Fato" (Heimarméne), ossia come ineluttabile necessità, che spiega la libertà dell'uomo come un conformare i propri voleri con quelli del Destino, come un'accettazione razionale del Fato.
Dopo la genesi stoica, il concetto di "Provvidenza" fu ripreso, procedendo in ordine cronologico, dalla Patristica. La Provvidenza biblica è propria di un Dio che è in sommo grado personale e che si dirige, oltre che sul creato in generale, anche e in particolare sui singoli uomini.
"Ed io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, picchiate e vi sarà aperto.
Chiunque, infatti, chiede e riceve; chi cerca trova; a chi picchia sarà aperto"
(dal Vangelo di Luca)
Ma la Provvidenza cristiana si differenzia da quella stoica perché -cosa fondamentale- presuppone un atto di creazione. I Greci infatti, avevano sempre considerato il mondo, e più precisamente la materia (chora), come esistente da sempre. Platone aveva parlato di un Demiurgo che, prendendo come modello il mondo delle Idee, l'Iperuranio, aveva plasmato la chora; Aristotele era arrivato ad ammettere l'esistenza di un Motore Immobile ("aliquod primum movens, quod a nullo movetur: et hoc omnes intelligunt Deum", S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, prima pars, quaestio II) che aveva fatto sì che tutte le cose, tendendo verso di esso, si organizzassero. Dio, essendo eterno, da sempre aveva attratto come oggetto d'amore l'universo, che dunque da sempre era così come si presentava agli occhi degli uomini. Solo con Plotino (siamo alle soglie del II sec. a.C.) viene messo da parte il concetto di eternità della materia, ed introdotto un concetto affine a quello di creazione: la processione dall'Uno. L'Uno o Assoluto è causa sui , causa di se medesimo e contemporaneamente causa e principio di tutte le cose. Ma esso non crea liberamente: è sovrabbondanza di perfezione, quindi necessariamente da esso devono procedere tutte le cose, inferiori e impoverite rispetto alla causa generante.
"In termini teologici diremmo che, per Plotino, Dio non crea liberamente l'altro da sé, ma crea liberamente sé come infinita potenza; questa, a sua volta, necessariamente, si espande producendo l'altro da sé" (op.cit. Reale - Antiseri).
La creazione cristiana è invece frutto di un libero e consapevole atto d'amore. Inoltre essa è " productio rei ex nihilo sui et subiecti " (S. Agostino), produzione delle cose dal nulla di sé [di Dio] e del mondo. Vale a dire che Dio ha creato non attingendo dalla sua sostanza (altrimenti si parlerebbe di pantheismo), ponendo le cose al di fuori di sé, né dalla chora (perché ciò implicherebbe l'eternità della stessa). E avendo creato tutte le cose e conoscendole intimamente, Dio può governarle, o meglio, indirizzarle, divenendo così Divina Provvidenza. La Provvidenza non mortifica assolutamente -come molti erroneamente pensano- il libero arbitrio dell'uomo. Si tenga a mente che la Controriforma si oppose strenuamente alla teoria del servo arbitrio e della predestinazione di Martin Lutero, rispondendo con il De libero arbitrio.
L'azione umana viene sostenuta dall'intervento divino, raggiungendo talvolta, proprio grazie ad esso, un fine migliore rispetto a quello che si era proposto. Si tratta della cosiddetta teoria della eterogenesi dei fini, della quale parlò Giambattista Vico (1668-1744). Secondo Vico artefici della storia sono Dio e gli uomini. Dio prescrive le tre età (età degli dèi, degli eroi, degli uomini), gli uomini ne decidono liberamente e consapevolmente i contenuti. L'intervento della Provvidenza non è determinismo storico, né intervento miracoloso che dall'esterno riconduce gli eventi verso un fine esterno alla storia stessa. La Provvidenza è l'artefice della "storia ideale ed eterna", del disegno ideale delle tre età. I primi uomini, pur essendo dei "bestioni" sono diventati progressivamente sempre più umani. Tutto ciò si spiega appunto con l'intervento della Provvidenza.
"Se si esclude il fato, che non spiega la libertà, e se si esclude il caso che non spiega l'ordine, occorre ammettere una mente divina artefice di tale progetto [le tre età]" (op.cit. Reale - Antiseri).
La Provvidenza, completando e sostenendo l'azione dell'uomo, diventa la teoria del senso della storia.
Il concetto di Provvidenza diviene poi uno dei capisaldi della produzione letteraria di un grande poeta del 1800: Alessandro Manzoni.
Manzoni venne educato dapprima in un collegio tenuto da padri somaschi, e in seguito presso i padri barnabiti a Milano, nel collegio dei Nobili. Dei sistemi pedagogici dei religiosi il poeta conservò un ricordo assai negativo e ne condannò l'autoritarismo ottuso e la chiusura culturale. Nonostante questo, si avvicinò in età adulta al giansenismo, movimento cattolico fondato da Giansenio nel 1600, noto per il rigorismo morale che predicava. E fu proprio la frequentazione dei cattolici giansenisti che portò il Manzoni alla conversione, vera e propria pietra miliare nella sua vita, maturata tra il 1809 e il 1810. È bene tenere a mente che la conversione dello scrittore non fu un evento improvviso e miracoloso, come l'agiografia dei contemporanei volle far credere, ma il risultato di una lunga e sofferta meditazione. Per usare le parole del genero di Manzoni, Giovanni Battista Giorgini, "egli arrivò alla fede per via della logica". Senza dubbio, la ritrovata presenza di Dio influenzò la sua vita di uomo e parimenti di scrittore.
Il concetto di Provvidenza manzoniano ha subito un'evoluzione nel corso della produzione letteraria dello scrittore: la longa Manus che permette a Renzo e Lucia di risollevarsi, di uscire fuori dai guai con un po' più di esperienza e- perché no- anche con un po' più di benessere economico, non è la stessa che permea di sé la tragedia manzoniana dell' Adelchi. Il giovane e valoroso principe longobardo, figlio di Desiderio, si trova a combattere una guerra che egli ritiene sacrilega, e per di più senza speranza. Sacrilega perché tale è una guerra contro la Chiesa di Dio; senza speranza perché l'esercito di Carlo Magno, chiamato in aiuto dal Papa, era numericamente superiore a quello longobardo. Ma Desiderio, che aveva sfruttato come pretesto il ripudio di sua figlia Ermengarda, sorella di Adelchi, da parte di Carlo Magno, voleva a tutti i costi quella guerra. Così Adelchi, quasi onorando una romana pietas, intraprende la battaglia col coraggio di un eroe, col dovere di un figlio. E va incontro alla disfatta, sua e del suo popolo. Adelchi muore combattendo, sua sorella Ermengarda si consuma in un convento, dopo una lenta agonia. Entrambi i fratelli soffrono in terra per scontare una colpa del ghènos, della stirpe: la colpa di appartenere ad un popolo di oppressori.
Te, dalla rea progenie
degli oppressor discesa,
cui fu prodezza il numero,
cui fu ragion l'offesa,
e dritto il sangue, e gloria
il non aver pietà,
te collocò la provida
sventura in fra gli oppressi
(Manzoni, Adelchi, IV Coro, vv. 97-104)
La sofferenza terrena garantisce ad Ermengarda e a suo fratello Adelchi la salvazione ultraterrena. Diversamente accade ne I Promessi Sposi.
I Promessi Sposi sono stati definiti dal critico Attilio Momigliano "l'epopea della Provvidenza". Renzo e Lucia, pur dovendo sopportare una lunga serie di peripezie e sofferenze, ne escono infine migliorati. Infatti, Renzo afferma alla fine del romanzo: "Ho imparato a non mettermi ne' tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo." ( Pr.Sp . cap. XXXVIII). La sofferenza, dunque, è risultata infine catartica, e Renzo ne è uscito avvantaggiato non soltanto dal punto di vista umano; la sua formazione ha toccato anche un lato puramente socio-economico, come vide A. Gramsci. Infatti, Renzo e Lucia da operai diventano infine piccoli imprenditori, poiché Renzo, stabilitosi nel Bergamasco, "si risolvette subito per l'industria" (ibidem), acquistando un "filatoio". I frutti della sofferenza, dunque, si riscontrano già in terra, vita natural durante.
La presenza di Dio all'interno de romanzo è palesemente esplicitata. L'intervento divino si configura proprio come Provvidenza che fa sì che le azioni degli uomini si risolvano al meglio, e che anche i mali siano utili per educere (educare), per pervenire ad una situazione migliore di quella di partenza. La sventura che colpisce Renzo e Lucia va dunque considerata in ordine al progetto di Dio: essa è "provida sventura" ( Adelchi , IV Coro, Manzoni).
"I guai [.] quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce" ( Pr.Sp . cap. XXXVIII).
E tuttavia, tale visione presuppone un velato pessimismo di fondo: tutti i disegni umani, siano essi votati al bene o al male, falliscono: il rapimento di Lucia è vanificato dalla conversione dell'Innominato, il progetto di Padre Cristoforo di proteggere Renzo e Lucia viene sconvolto dalla debolezza della monaca di Monza. Ed è a questo punto che interviene la Provvidenza: risolleva le sorti degli umili, dei puri di cuore, e parimenti offre una possibilità di pentimento, e dunque di riscatto, ai peccatori.
La Provvidenza è altrettanto importante, anche se meno evidente, nell'opera di J.R.R. Tolkien. Egli crebbe in un ambiente fortemente cattolico, per scelta della madre, che aveva riscoperto la confessione romana rispetto a quella anglicana tipica di famiglia; questa sua scelta ebbe una grandissima influenza sul giovane Tolkien, che si portò dietro per tutta la vita un profondo, radicato e sincero sentimento religioso, che traspare chiaramente come messaggio più che come forma nelle sue creazioni. In Tolkien c'è il cristianesimo, anche se trasposto in Arda; non sotto l'aspetto dell'allegoria, bensì come messaggio di pace e di speranza universale, scevro da tutte le imperfezioni terrene che ad esso si sono accompagnate nei secoli.
Non c'è dunque da stupirsi se si può parlare di Provvidenza anche in Arda. Nel mondo di Tolkien, che altro poi non è che il nostro mondo, proiettato in un passato ante litteram, la Provvidenza è l'intervento di un Dio, Eru, che pare distaccato e lontano dal mondo, ma che agisce nelle vicende di uomini ed elfi mediante l'intervento degli Ainur, le potenze angeliche da lui inviate per reggere il mondo in sua vece, per essere l'estensione della sua volontà nel mondo che lui stesso ha creato.
Un personaggio in cui questa dimensione della Provvidenza è molto rilevante è Tuor, la cui figura è assai simile a quella di Enea, l'espressione massima dell'eroe romano, impregnato di etica stoica che, come abbiamo fatto notare, introdusse la Provvidenza nella filosofia. La sua missione, quella di dare origine alla stella che porterà la salvezza ai Noldor ed agli Edain, cioè essere il padre di Earëndil, non è lasciata a se stessa, ma viene fortemente spinta da Ulmo in persona, che appare in tutta la sua potenza al figlio di Huor, mostrandosi in forma di un uomo forte e poderoso che emerge dalle acque, e spiega all'attonito ed affascinato Tuor qual è il destino che i Valar, che Eru stesso ha pianificato per lui. Enea in un certo senso faceva qualcosa di molto simile: abbandonava la sua vita attuale, rinnegava il suo amore per Didone per seguire la strada che Mercurio gli indicava, una strada difficile perché piena di incertezze, ma che lo avrebbe portato alla gloria. Nel caso di Tuor questa situazione pare in contrasto con il Libero Arbitrio, la facoltà di scegliere il proprio percorso fra le pieghe del destino: Iluvatar ha voluto che questa fosse caratteristica saliente degli uomini, la completa libertà di scegliere, e di conseguenza anche di sbagliare; non così è per gli elfi, invece, i cui destini sono cantati nella Musica degli Ainur.
Pare però terribile un dio che leghi i propri figli ad un fato ineluttabile, che scelga ogni singola mossa per i propri figli, muovendoli come i pezzi di una partita di scacchi, inerti pedine nelle mani di un burattinaio. A nostro avviso non è così: Eru non sceglie il fato dei propri Primogeniti rigidamente, uno per uno, forzandoli contro il loro volere a compiere ogni singolo atto lui voglia: si potrebbe invece dire che il popolo elfico sia, destinato a percorrere una strada in cui ogni fatale curva e già delineata: l'esilio dei Noldor, il rapporto conflittuale con gli uomini, l'odio verso Melkor, il loro ritorno progressivo a Valinor. Gli elfi, in quanto creature sagge e lungimiranti, sanno spesso qual è questo loro destino, e ci vanno incontro; per questo non hanno bisogno di qualcuno che li diriga, come Ulmo con Tuor. In questo caso infatti l'uomo non aveva molte scelte: anche fosse stato riluttante, poteva solo seguire questo consiglio così autorevole del Vala, apparso a lui in tutta la sua maestà. Eppure, questo è proprio ciò che per Tolkien è la Provvidenza, semplificata in un'immagine mitologica, ma chiara e vivida: è la pianificazione divina, che ci spinge verso la strada migliore, ci dà una spinta verso la direzione giusta, ci dà una spinta "fuori dall'uscio".
Infatti, l'espressione più lampante e genuina della Provvidenza tolkieniana è Gandalf.
Egli è, infatti, un Ainu, ed in quanto tale è espressione della volontà divina di Eru Iluvatar; e per di più è un Istar, e cioè uno di quegli Ainur mandati sino alla Terra di Mezzo per guidare le genti durante la Terza Era, dato che gli elfi ormai sono disinteressati alle sorti del mondo che li circonda, dopo la sconfitta di Gil-Galad ed il crollo dell'Ultima Alleanza. Gli uomini dunque hanno bisogno di una guida, dopo che la Terra di Mezzo non è più degli elfi, perché la loro prerogativa è, appunto, quella di avere piena libertà di agire e di sbagliare, se necessario; hanno bisogno di una guida perché la loro mancanza di lungimiranza non li porti alla rovina totale. Gli elfi non hanno, invece, bisogno di un Gandalf ad aiutarli, perché sono, per natura, portati ad accettare il destino che gli è posto di fronte. Ed è quindi per questo che gli Istari giungono solo nel corso della Terza Era, quando cioè sono gli uomini a foggiare i destini della Terra di Mezzo.
Per questo prima parlavamo di "spinta fuori dall'uscio": la prima impresa di Gandalf che vediamo è proprio quella di spingere Bilbo a vincere la propria innata pigrizia, e seguire i Nani in quella che sarà l'avventura che cambierà la sua vita, ed alla lunga anche le sorti della Terra di Mezzo. Se Sauron viene sconfitto è perché Gandalf, quel mercoledì, ha portato Thorin ed i suoi compagni a Casa Baggins, permettendo così allo hobbit di trovare l'Anello, di passarlo poi a Frodo, di comunicargli il suo amore per l'avventura, in modo che poi il giovane potesse sobbarcarsi il peso del viaggio sino a Mordor e della distruzione dell'Anello. Tutto ciò con una "spinta fuori dall'uscio", appunto.
La Provvidenza è dunque chiaramente tangibile, ha l'aspetto di un vecchio un po' burbero ed apparentemente trasandato, energico, saggio e gentile, sempre pronto ad elargire consigli ed aiuto. Questa è certo una rappresentazione mitologica di questa forza che, però, per Tolkien agiva in modo invisibile per tutti gli uomini, rendendo possibili determinate situazioni invece di altre, guidando l'uomo, consciamente o inconsciamente, verso il migliore dei destini possibili. Gandalf stesso, a volte, agisce quasi in modo inconscio, senza rendersi conto fin da subito di quali siano tutte le implicazioni nel porre una situazione di fronte ad una persona: l'importanza dell'Anello che Bilbo trova, certo non fortuitamente, nelle caverne degli Orchi, diverrà chiara solo quando Gandalf si renderà conto che quello è l'Anello del Potere di Sauron, l'oggetto che può far tornare l'Oscuro Sire al suo antico potere. Questo è un carattere tipico della Provvidenza: i suoi effetti si notano solo a distanza di giorni, mesi, e spesso anche anni, perché bisogna lasciare che le conseguenze delle azioni si mostrino in ogni loro implicazione, ed anche allora c'è bisogno di grande saggezza per poterle interpretare correttamente. Che il fine ultimo del viaggio di Bilbo fosse quello che Frodo divenisse il Portatore dell'Anello, colui che poteva distruggere l'artefatto tanto a caro a Sauron, divenne chiaro ai più saggi solo al Concilio di Elrond, anni dopo che quell'oggetto era stato ritrovato dallo hobbit.
Strumento di questo piano provvidenziale sotteso ai due romanzi è la creatura più impensabile di tutte, un essere vile e spregevole, più atipica come strumento di un piano divino dello stesso Frodo: Gollum, che come il giovane Portatore è uno hobbit, o almeno lo era; è però stato corrotto dalla malefica presenza dell'Anello, che lo ha reso una creatura malvagia e contorta, dalla doppia personalità. È lui che trova l'Anello, è da lui che passa a Bilbo, ed è lui che, con il suo desiderio di ritrovare il suo "Tessoro" insegue e poi guida Frodo e Sam sino a Mordor; ed è lui che, nell'estremo desiderio di ricongiungersi con quella piccola fascia d'oro che gli ha stregato la mente ed il cuore, stacca il dito di Frodo, per poi caracollare all'interno della voragine del vulcano, e decretare così la fine dell'Oscuro Sire. Eppure, Gollum non è mai conscio del suo ruolo nelle vicende del mondo, non lo sarà mai, perché è accecato dal presente, dal suo desiderio di riprendere il suo regalo di compleanno. Nonostante ciò, il suo ruolo è fondamentale, senza il suo aiuto, pur guidato da fini sbagliati, Frodo e Sam non sarebbero mai giunti sino all'Orodruin, e soprattutto lo hobbit non avrebbe mai avuto la forza di scagliare l'Anello nella voragine. E tutto questo è riconducibile, in qualche modo, a quella semplice, apparentemente innocua "spinta fuori dall'uscio" che Gandalf diede a Bilbo un mercoledì pomeriggio, invitando i Nani a prendere il tè a casa dello hobbit, e che poi mise in moto tutta quella serie di eventi che portarono alla distruzione dell'Anello ed alla salvezza della Terra di Mezzo.
Parrebbe però così che il ruolo che Bilbo e Frodo hanno giocato in questa vicenda sia solamente quello di burattini, mossi dagli invisibili fili del piano provvidenziale di Eru. Non è così. La Provvidenza agisce appieno solo ed esclusivamente se noi, in un certo senso, siamo in grado di accettarla, di assecondarne i piani. Senza Gollum, Frodo non sarebbe mai giunto a Monte Fato; ma più e più volte sia Bilbo che Frodo avrebbero potuto ucciderlo, a causa dei suoi ripetuti tradimenti, o anche solo per porre fine alla sua esistenza miserabile. Eppure, hanno deciso di avere pietà di lui, di farlo continuare a vivere, nonostante le sue meschinità. Senza Gollum, il piano della Provvidenza probabilmente non avrebbe avuto atto, perché Bilbo, e poi Frodo, ne avrebbero in un certo modo "rifiutato" l'aiuto. La pietà dei due hobbit è l'espressione del loro arbitrio, della loro quasi inconscia capacità di affermare la propria adesione al piano che la Provvidenza gli aveva posto di fronte. La famosa "spinta fuori dall'uscio" non poteva bastare, senza che i due hobbit accettassero questo loro ruolo, mettendosi in viaggio loro stessi; e non poteva bastare, senza che essi esercitassero liberamente il volere della Provvidenza stessa.
"Fu l'evento più straordinario in tutta la storia dell'Anello fino ai giorni nostri: l'arrivo di Bilbo in quel preciso minuto, il fatto che vi posasse la mano sopra, ciecamente, nel buio. C'era più di una potenza in gioco, Frodo. [.] L'Anello abbandonò Gollum, e capitò in mano della persona più incredibile: Bilbo della Contea! Dietro a questo incidente vi era un'altra forza in gioco, che il creatore dell'Anello non avrebbe mai sospettata. È difficile da spiegarsi, e non saprei essere più chiaro ed esplicito: Bilbo era destinato a trovare l'Anello, e non il suo creatore. In questo caso, anche tu eri destinato ad averlo, il che può essere un pensiero incoraggiante"
(J.R.R. Tolkien, ISdA , L'ombra del passato, trad. Vicky Alliata di Villafranca)
Questo brano, tratto dal Signore degli Anelli, spiega proprio questa apparente coincidenza. L'evento più straordinario è che ogni cosa fosse inconsciamente al proprio posto, quel giorno nella caverna: c'era la volontà dell'Anello, c'era la volontà di Bilbo di essere lì, c'era la volontà di Gollum; e c'era quell'altra "potenza in gioco", che fa dire a Gandalf che "Bilbo was meant to find the ring" (J.R.R. Tolkien, The Lord of the Rings), il che è abbastanza differente dalla traduzione italiana, che riporta "destinato". La sfumatura è leggermente diversa: mentre nell'italiano destinato abbiamo come l'immagine di un potere che obbliga Bilbo, magari anche contro la sua volontà, a fare qualcosa, che lo guida come un burattino, l'inglese meant ha una sfumatura se vogliamo meno fosca, meno assoluta: meant è passato di to mean, "significare", e dunque il "destino" che guida Bilbo è più un significato, che un vero e proprio, rigido destino. Potremmo rendere, forse meglio, che Bilbo doveva trovare l'Anello, perché ogni cosa era stata spinta a quel punto dalla Provvidenza; ma Bilbo avrebbe potuto rifiutare, in quel momento, quel destino, quel meaning che lo spingeva a mettere in moto tutta una serie di conseguenze che avrebbero portato alla disfatta di Sauron. E questa è un'altra prova che la Provvidenza non è un burattinaio, ma è una mano gentile che guida l'uomo verso il miglior meaning possibile.
In definitiva, identificare quella che i teologi cattolici hanno definito come Potenza Angelica con un vecchio comune, con un volto rassicurante come quello di Gandalf, è stato necessario per portare questo concetto, spesso astratto, su un livello concreto e ben identificabile, anche se nascosto sotto l'apparenza narrativa; in lui si nota il grandissimo, anche se mai invasivo sentimento religioso di Tolkien, capace di agire su Arda senza mai scadere nell'allegoria.