Tolkien e l'Islanda: la filologia dell'invidia Da un brano di Tom Shippey - Traduzione di Ilaria Gelichi "Eliadelin Tindómiel" |
Il testo che segue è tratto dal testo di un intervento del celebre studioso tolkieniano Tom Shippey, autore di alcune fra le pubblicazioni di maggior pregio dedicate alle opere del Professore di Oxford. La conferenza in questione si è tenuta in occasione di un evento promosso a metà settembre 2002 dall'istituto culturale indipendente islandese Sigurður Nordal: gli atti della due giorni di studi sono consultabili sul sito Internet del medesimo istituto (http://www.nordals.hi.is/), anche in versione inglese. na delle cose che più spesso si sono dette a proposito di J.R.R. Tolkien è la sua intenzione di creare, attraverso le sue opere, una “mitologia per l'Inghilterra”. Pare che egli in effetti non abbia mai pronunciato queste testuali parole, ma che in più di un'occasione abbia detto qualcosa di molto simile. Infatti, in una lettera scritta dopo la pubblicazione de Il Signore degli Anelli o Hringadrottins saga [in islandese, ndr] egli dice di essersi “posto un obiettivo, l'arroganza del quale ho sempre riconosciuto e temuto: precisamente quello di restituire agli Inglesi una tradizione epica ed offrire loro una mitologia propria”. [1] Un'altra precedente lettera afferma più in dettaglio che “un tempo (al mio desiderio ho rinunciato già da molto) avevo in mente di scrivere un corpo di leggende più o meno legate fra loro, che spaziassero dall'ampia cosmogonia al livello delle favole romantiche […] che avrei potuto dedicare semplicemente all'Inghilterra, la mia terra”. [2] Quest'ultima lettera fu scritta nel 1951, quando Il Signore degli Anelli non era stato ancora pubblicato e neanche accettato da nessun editore, mentre Il Silmarillion era stato mostrato una volta ad un editore e subito rifiutato. Adesso sappiamo che nel 1951 Tolkien aveva già scritto un corpo di leggende che andavano dal cosmogonico (le prime parti de Il Silmarillion) al romanzo epico (Il Signore degli Anelli). Egli abbandonò l'idea di dedicare i suoi lavori “all'Inghilterra, alla mia terra”, ma è probabile che all'inizio il suo maggior interesse fosse di carattere sia nazionalistico che mitologico. In questo proposito, naturalmente, non era solo, sebbene fosse in ritardo di un secolo. Nel 1835 Jacob Grimm aveva scritto la sua Deutsche Mythologie [“Mitologia tedesca”, ndt], e ancora prima Nikolai Grundtvig aveva scritto due diverse versioni della Nordens Mytologi (1808 e 1832), entrambe con simili interessi nazionalisti. Comunque, Tolkien aveva un problema, o piuttosto due problemi, che per i suoi due predecessori non erano così grandi come per lui. Uno di questi è la quasi totale assenza di una tradizione o di miti anglosassoni pre-cristiani: non esiste un Edda anglosassone. Non esistono gli equivalenti inglesi né di Jón Árnason, né di Haus- und Kindermärchen [“Favole della casa e per bambini”, ndt] dei Grimm. Al tempo in cui coloro che raccoglievano favole popolari cominciarono a lavorare in Inghilterra, non c'era rimasto più niente da raccogliere. Ma non era così in altre parti delle Isole Britanniche: ad esempio, i Grimm poterono presentare nel 1826 la loro traduzione de Irische Elfenmärchen [“Favole irlandesi di elfi”, ndt] di Thomas Crocker. Ma Tolkien non era un nazionalista britannico o celtico, bensì un nazionalista inglese, e tutto questo non gli era di nessun aiuto. Nella seconda lettera prima citata agli afferma: “Fin dagli inizi la povertà della mia amata terra mi ha sempre afflitto: non aveva racconti suoi propri (legati alla sua lingua e al suo territorio), non della qualità che cercavo (e trovavo essenziale) nelle leggende degli altri paesi […] Naturalmente c'era e c'è tutto il ciclo arturiano, ma, nonostante la sua importanza, esso si è imperfettamente ambientato ed è associato al territorio della Britannia, non agli Inglesi. In più, esso ha a che fare esplicitamente con la religione cristiana ed è coinvolto con essa. Per varie ragioni che non starò a spiegare, per me tutto ciò è di fatale importanza…” Una certa gelosia, o invidia, è aggiunta in una nota che egli scrisse probabilmente nel 1917, nella quale dichiara, parlando delle primissime versioni de Il Silmarillion, “così accade che […] gli Angli [gli Inglesi] hanno la tradizione delle fate, delle quali Iras e Wealas [Irlandesi e Gallesi] dicono cose alterate e rimaneggiate”. [3] Tolkien voleva miti inglesi e leggende inglesi, ma anche favole inglesi; ma non esistono. Si rifiutò di attingere dalla tradizione celtica, che considerava aliena. Che cosa avrebbe fatto allora? La risposta è, certamente, che avrebbe preso in prestito qualcosa dal norreno, il quale, per ragioni filologiche, NON considerava alieno. Tolkien, comunque, aveva un altro problema, quello di essere un cristiano credente e, a differenza dei Grimm e di Grundtvig, cattolico. Si potrebbe benissimo dire che per un cristiano non dovrebbe avere nessuna importanza riportare in vita miti pagani e costruire mitologie alternative. C'è un solo vero mito, quello Cristiano, ed esso non tollera competitori, come apprendiamo dal primo comandamento: “Non avrai altro Dio all'infuori di me”. Se la prima domanda che ho posto è “COME ha potuto Tolkien creare una mitologia per l'Inghilterra?”, la seconda deve allora essere “PERCHÉ avrebbe egli voluto creare una mitologia per qualcuno?”. Darò una risposta dettagliata prima a questo secondo quesito. Oggigiorno è molto facile per noi dimenticare o sottovalutare l'impatto che ebbe nel mondo erudito la letteratura nordica antica quando fu riscoperta, da fonti islandesi, tra il XVII e il XIX secolo. La storia di questo impatto è stata scritta in parte dal Dr. Wawn, ad esempio, nel suo libro I Vichinghi e i Vittoriani, ma certamente ebbe inizio prima dell'epoca vittoriana. Non posso tenere più in considerazione qualcuno rispetto a qualcun'altro, ma i maggiori punti di svolta includono Runer, seu Danica Literatura Antiquissima vulgo Gothica dicta hic reddita opera di Ole Worm (1636), basato su manoscritti forniti da Magnús Óláfsson di Laufás; la consegna a Copenhagen da parte del vescovo Brynjófr Sveinsson del manoscritto Codex Regius dell' Edda poetica nel 1662; l' Antiquitatum Danicarum de Causis Contemptæ Mortis a Danis adhuc gentilibus libri tres ex vetustis codicis & monumentis hactenus ineditis congesti di Thomas Bartholinus (1689); il Monumens de la mythologie et de la poésie des Celtes et particulierement des anciens Scandinaves di Mallet (1756); la traduzione da parte di Thomas Percy di Northern Antiquities di Mallet (1770); dello stesso Percy, Five Pieces of Runic Poetry, translated from the Icelandic Language (1763). Inoltre, anche i responsabili parziali di questo impatto che io conosco, non rispondono ancora alla domanda: cosa rese così irresistibilmente attraenti l' Edda Poetica, l' Edda in prosa di Snorri Sturluson, il Krakumál, e il fornaldarsögur? Cercherò di fornire qui tre motivi, che credo possano spiegare il bisogno di Tolkien di ricreare la mitologia mancante dell'Inghilterra e forse anche quello degli altri “creatori”. Il primo di questi motivi è che la mitologia nordica è stranamente buffa. Non intendo “comica”, bensì “divertente”. Thórr è spesso una figura divertente, in un modo che non è proprio di Zeus o Giove. Si pensi a lui travestito da Freyja, quando tenta di riprendere il suo martello in Þrymskvida1, con il gigante che chiede: Hví eru öndótt augu Freyju? e Loki astutamente risponde: Svaf vætr Freyja átta nóttum, Si pensi a quando combatte per prosciugare il boccale a forma di corno che era stato collegato al mare nella casa di Útgarða-Loki, o a quando trova il gatto che è in realtà il Miðgarðsormr2. Questo non è il tipo di storia che ci viene raccontata a proposito di Ercole. Ma ci sono molti altri esempi. Il Krakumál3 termina con Ragnar Loðbrók che dice hlæjandi skal ek deyja , e in un'altra versione della sua morte nel ormgarðr le sue ultime parole sono gnyðja munu grísir ef galtar hag vissi , cioè "se essi sapessero com'è morto il vecchio cinghiale, i maialini grugnirebbero". Ma gnyðja è di sicuro un termine volgare, e “maialini” è un modo buffo per riferirsi a Ívarr hinn beinlaussi e Sigurðr orm-i-auga. Essi non dicono cose di questo genere nell' Eneide di Virgilio. Tuttavia, queste maniere volgari o divertenti di raccontare storie mitiche o eroiche non vogliono in nessun modo sminuire lo status degli dei e degli eroi nordici, bensì l'opposto. E la saga nordica, nonché l'Edda, sono perfettamente capaci di raggiungere il sublime e la magnificenza, come possiamo vedere dalla Völuspá4 o dal Sólarljóð [“Canto del Sole”, ndt]. Si possono trovare il buffo, l'eroico e il sublime tutti assieme nelle pagine dell' Introduzione al norreno presentata da E.V. Gordon nel 1927, un libro che annuncia il suo speciale debito verso Tolkien nella “Prefazione” e che fu chiaramente preparato nel periodo in cui Tolkien e Gordon furono stretti colleghi e collaboratori all'Università di Leeds verso la metà degli anni Venti. Suggerisco infatti, che questo libro mostra molto bene il secondo motivo per l'attrazione del mondo erudito verso la letteratura nordica antica, che, sebbene sia buffo, rifiuta la classica definizione: il tenere separati gli stili, stile alto, medio e basso. Notoriamente questa è anche una delle caratteristiche di un inglese nativo – ciò che rese inaccettabile Shakespeare agli occhi di Voltaire – ma la letteratura nordica antica dava a questo inglese in decadenza un ceppo distinto. (Vorrei far notare, en passant , che in questa Introduzione Gordon dà uno strano valore composito alla Battaglia di Stiklastaðir, che è altamente “indecorosa” e in un certo modo mi fa tornare in mente la fine di Gerpla5). Comunque, il terzo motivo che vorrei indicare come spiegazione del forte impatto del norreno sugli studenti europei e su Tolkien, è il fondamento logico che dà per l'eroismo. L'immagine più sorprendente della mitologia nordica per i Cristiani è forse l'idea del Ragnarök, un'Apocalisse in cui vince la parte sbagliata. Tolkien fu molto colpito da questo, come si può vedere dai suoi commenti nella sua conferenza sul Beowulf alla British Academy nel 1936: “E' la forza dell'immaginazione mitologica nordica che affrontò questo problema, mise al centro i mostri dando loro la vittoria senza però onore e trovò una potente e terribile soluzione nel nudo volere e coraggio. ‘Come una teoria operante assolutamente inespugnabile'. E' così forte, che mentre la vecchia immaginazione meridionale [cioè i Classici] è decaduta anche ad ornamento letterario, quella nordica ha il potere di far rivivere il suo spirito perfino ai nostri giorni. Può funzionare, come ha fatto anche con il goðlauss viking, senza dèi: eroismo guerriero come la sua stessa fine. Ma dobbiamo ricordare che il poeta del Beowulf aveva visto giusto: il premio per l'eroismo è la morte”. [4] Tuttavia si può anche notare che, nonostante scrivesse poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Tolkien si sentiva già piuttosto disturbato da essa: si accorse che la norma di vita che rappresentava avrebbe potuto essere utilizzata in altro modo, come poi avvenne pochi anni dopo con l'uso deliberato del Götterdämmerung [“Crepuscolo degli dèi”, la parte finale della Völuspá, ndt] da parte dei leader nazisti. Tuttavia, fornì un'immagine della virtù eroica che poteva esistere e poteva essere ammirata al di fuori del contesto cristiano. Sotto alcuni aspetti la “teoria del coraggio” nordica poteva essere anche considerata superiore a quella classica, se non alla visione cristiana del mondo, poiché in essa si richiede l'impegno alla virtù senza alcuna promessa di ricompensa durevole. Gli uomini dovevano combattere i mostri perché era il loro compito, non perché pensavano che i mostri avrebbero perso e neanche che gli dèi avrebbero vinto. Durante la profonda disillusione che colse il mondo occidentale e l'Inghilterra specialmente dopo il 1918, la mitologia nordica sembrò immune da dubbi personali, semplicemente perché non aveva nessuna fede personale. In risposta alla mia domanda, PERCHÉ Tolkien volle inventare una nuova mitologia, direi che, come i Grimm o Grundtvig, egli desiderava fortemente una mitologia che sembrasse nativa e che non fosse identificabile con quella giudeo-classica. Egli si accorse inoltre che la mitologia nordica avrebbe fatto da modello per ciò che viene chiamato “paganesimo virtuoso”, che era in realtà pagano; qualcosa che fosse conscio della sua inadeguatezza e quindi maturo per la conversione, sebbene non ancora caduto nella disperazione e nella disillusione in cui cadde gran parte della letteratura post-cristiana del XX secolo; una mitologia che fosse a suo modo gioiosa. Difese il suo diritto di creare la mitologia in una lunga poesia chiamata "Mythopoeia”. Ma aggiungerò solo un'altra spiegazione per l'attrazione che la letteratura islandese antica esercitò su Tolkien: il fatto che gran parte di essa era andato perduto, e in tutta la sua vita Tolkien si è divertito a riempire gli spazi vuoti in ciò che già esisteva. C'è, ad esempio, un noto spazio vuoto nel manoscritto Codex Regius dell' Edda Poetica , in cui mancano otto pagine del ciclo di Sigurðr. E Tolkien scrisse due poesie in norreno e nella giusta metrica, che potessero riempire questo spazio: riteniamo che esse si chiamino Sigurðarkvida hin nyja e Guðrunarkviða hin nyja . Sfortunatamente, esse rimangono inedite. Passerò adesso all'altra mia domanda, COME creò Tolkien la sua nuova “mitologia per l'Inghilterra” senza partire da nessun'altra opera inglese; e la risposta è abbastanza semplice. Mise in pratica quella che chiamiamo la “scappatoia” dell'Università di Leeds, perfettamente in grado di funzionare: cioè che la letteratura nordica antica è in realtà anche inglese. Primo, perché le due lingue e tradizioni culturali sono filologicamente parenti; secondo perché un tempo, in alcune parti dell'Inghilterra (Leeds compresa) i nativi parlavano sia norreno che inglese. Le poesie della Prima Edda non saranno scritte in inglese, ma potrebbero essere state scritte in Inghilterra. In ogni caso, forse sono scritte in inglese. Grímur Jónsson Thorkelín disse che il Beowulf era scritto in anglosassone; ma esso, come l'antico islandese, era solo un dialetto dell'antico danese, poema danicum dialecto anglosaxonica. Grundtvig era d'accordo con lui e affermò che tutte queste lingue non erano altro che dialetti del proto-nordico. Naturalmente i Grimm non si trovarono d'accordo, poiché secondo loro l'inglese era una lingua germanica [occidentale, ndt], una forma di Plattdeutsch [“basso tedesco”, dialetto del tedesco moderno parlato nella fascia settentrionale della Germania, ndt], ma allora che cosa vi aspettereste? Gli rispose Gísli Brynjólfsson negli anni Cinquanta dell'Ottocento, dimostrando che l'inglese apparteneva realmente al ramo scandinavo meridionale, e non a quello germanico occidentale. L'ultima opera di George Stephens, il professore di Copenhagen, era intitolata Er Engelsk en tysk sprog? [“L'inglese è una lingua germanica occidentale?”, ndt] e la sua risposta fu “No!”. La questione è ancora oggi oggetto di dibattito. Ma lasciatemi dire che è facile e filologicamente giustificabile tradurre il norreno in anglosassone, e dire a te stesso che ciò che hai creato è un tempo realmente esistito: e questo è ciò che Tolkien fece ripetutamente. Questo lo possiamo notare fin dai primissimi esordi dei suoi romanzi, scritti forse fin dal 1917 ma rimasti inediti fino a quasi settanta anni dopo. In questi primi abbozzi de Il Silmarillion Tolkien crea un pantheon di Valar, che sono, per così dire, semidèi o demiurghi subordinati ad Eru, l'Unico, che è Dio; di questo essi sono consapevoli, ma hanno poteri soprannaturali ben superiori agli uomini. Si potrebbe dire che i Valar sono una specie di Asi adattati al contesto cristiano. Uno di essi in particolare, il bellicoso Vala Tulkas, sembra essere un rimaneggiamento della descrizione che Snorri fa del dio Týr, sebbene il suo nome ricordi l'ipotetica forma protogermanica della parola norvegese tulkr , “portavoce”, il cui significato diventò “guerriero” nel medio inglese. Quindi, la parola tolke è inglese, ma deriva dal norreno tulkr ; entrambe derivano dalla stessa radice *tulkas , perciò norreno e inglese sono in realtà la stessa cosa. Nello stesso modo, Tolkien piuttosto dubbiosamente introduce nella sua primissima mitologia una versione della descrizione di Snorri del Valhalla (più tardi abbandonata perché troppo bellicosa); mentre il punto di partenza di tutti i suoi scritti mitologici pare sia l'idea degli Elfi, o álfar [in islandese, ndt]. Non dirò niente in proposito perché so che il dottor Gunnel si occuperà di questo argomento, eccetto il fatto che ancora una volta le pochissime informazioni che abbiamo in anglosassone sugli ylfe – ciò che basta a dimostrare che gli antichi inglesi conoscevano la parola e il concetto – sono troppo ampie per poter tenere conto solo delle informazioni di Snorri Sturluson, e io sospetto delle ballate medievali danesi e nordiche. In ogni caso, forse l'aspetto rivelatore della prima mitologia di Tolkien è il tentativo di spiegare a se stesso da dove veniva. Essendo un filologo, non si accontentava di avere una storia: egli doveva avere anche una catena di trasmissione. Come mai soltanto gli inglesi avevano “ la tradizione delle fate, delle quali irlandesi e gallesi dicono cose alterate e rimaneggiate”? La risposta di Tolkien fu questa: la mitologia degli elfi era stata tramandata loro da un antico inglese di nome Ottor (non Ohthere perché sarebbe stato definitivamente inglese, né Ottarr perché sarebbe stato definitivamente norreno, ma Ottor, che poteva essere entrambi). Questo Ottor era il padre di Hengest e Horsa, i leggendari fondatori dell'Inghilterra, e quindi doveva per forza essere inglese. Ma si sa che Hengest fu uno iuto dello Jutland, e quindi danese. Ma secondo Tolkien gli iuti a quel tempo erano ostili verso i danesi, e il Beowulf si occupa in parte di questo confronto iuto-anglo-danese. Quindi, cos'era Hengest – o Henjest, come lo chiamava Tolkien insistendo sulla palatalizzazione? Non ha importanza. Suo padre Ottor, portatore della vera tradizione, era l'antenato degli inglesi, sebbene egli stesso un norvegese. E il primo uomo nella mitologia di Tolkien non si chiamava Askr, come nella Völuspá , bensì Æsc – il nome è lo stesso, ma con la palatalizzazione inglese. Agli inglesi la storia arrivò giusta, ai celti arrivò sbagliata, ma i norvegesi sono gli unici ai quali capitò di ricordarla. Bastava tradurre l'antico norvegese o l'antico islandese in anglosassone – dopotutto sono tutti la stessa lingua – e tutto sarebbe stato a posto. Questa fu la procedura che Tolkien usò non solo ne Il Silmarillion ma anche, con una certa limitazione, nelle sue opere più famose, Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli . Il caso più impensabile sono i nomi dei Nani ne Lo Hobbit: in ordine di apparizione sulla porta di casa di Bilbo Baggins, Dwalin, Balin, Kili, Fili, Dori, Nori, Ori, Oin, Gloin, Bifur, Bofur, Bombur, Thorin Scudodiquercia [in inglese “Oakenshield”, facilmente confrontabile con l'islandese “Eikinskjaldi”, ndt] figlio di Thrain figlio di Thror, discendente di Durin e parente di Dain. Diciotto nomi in tutto, incluso un soprannome e il diciannovesimo è naturalmente quello di Gandalf. Da dove tutto questo provenga, non ci sono dubbi: dal "Dvergatal", una sezione della Völuspá , che riporto secondo la versione di Snorri: Nýi, Niði, Norðri, Suðri, Qui ci sono diciassette dei diciannove nomi, e Dúrinn si trova qualche linea dopo come antenato dei nani, lo stesso ruolo che ha anche in Tolkien. Comunque, Tolkien non ha semplicemente copiato il “Registro dei Nani”, né lo ha usato per estrarvene i nomi. Probabilmente gli ha dato un'occhiata e poi si è rifiutato di guardarlo come fanno molti studenti, considerandolo una tiritera senza senso e poco comprensibile; però si pose una serie di domande su di esso. Ad esempio, cosa ci fa Gandálfr nella lista, dato che la seconda parte del suo nome è chiaramente álfr , e cioè “elfo”, una creatura che nella tradizione è abbastanza diversa da un nano? E perché è presente anche Eikinskjaldi, “Scudodiquercia”, dato che al contrario degli altri non sembra un nome ma piuttosto un soprannome? Nell'opera di Tolkien è certamente un soprannome, l'origine del quale è narrata dell'Appendice A (III) de Il Signore degli Anelli. Per quanto riguarda Gandálfr, o Gandalf, Tolkien ha elaborato una spiegazione più complessa. Nei primi abbozzi de Lo Hobbit, Gandalf era il nome dato al capo dei Nani, versione che Tolkien abbandonò presto: se uno si chiama álfr, non può certo essere un nano. Gand, comunque, significa “bastone”, e il bastone, o una bacchetta magica è ciò che hanno con loro i maghi; e un mago potrebbe venir chiamato álfr dalla gente che associa gli elfi con la magia. Quindi Gandalf è uno stregone, ma la prima cosa che Bilbo vede è “un vecchio con un bastone ”. Il nome porta al bastone, e il bastone dà l'idea dello stregone. In altre parole, quello che Tolkien ha fatto è prendere sul serio il “Dvergatal”, fingere che fosse la testimonianza di qualcosa che aveva avuto una storia connessa ad esso, un'Odissea dei nani; ma che essa fosse stata alterata in modo tale che i soprannomi si trovassero mischiati ai nomi e che un mago, o una creatura elfica con una bastone da mago, venisse citata erroneamente come un nano, mentre non era altro che un compagno dei nani. Niente di tutto ciò può però dare una spiegazione al signor Baggins o agli Hobbit, ma gli Hobbit vengono facilmente trascurati. Le creature che incontra, molto spesso provengono dal mondo immaginario di Tolkien, nel quale nomi e concetti nordici antichi vengono appropriati come inglesi. Ci sono, ad esempio, i Warg, i lupi intelligenti che sembrano essere una via di mezzo tra l'anglosassone wearh e il norreno vargr ; oppure Bard l'arciere, figlio di Brand, che potrebbe facilmente essere Barðr figlio di Brandr; o Beorn l'uomo-orso, che somiglia sia a Böðvarr Bjarki nell' Hrolfs saga Kraka che a Beowulf nel poema epico inglese e il cui nome potrebbe facilmente essere Björn – come in realtà è nella traduzione islandese de Lo Hobbit, Hobbitinn. O ancora, il drago Smaug: se fosse stato un drago inglese, il suo nome sarebbe provenuto da *sméogan e sarebbe stato *smeah; c'è un riferimento in anglosassone al smeogan wyrme, il “verme strisciante”. Ma stavolta Tolkien ha tradotto dall'anglosassone al norreno il verbo smjúga, il cui passato remoto è smaug, “egli strisciò”. Quindi se Beorn è un eroe inglese e Gollum (o Sméagol come era una volta) un contadino inglese, Smaug è un drago norvegese, forse perché i suoi nemici sono nani norvegesi. Ma tutti si muovono nello stesso mondo. Per Tolkien, era lo stesso mondo: Middan-geard [in anglosassone, ndt], Miðgarðr [in islandese, ndt], la Terra di Mezzo. Ma la letteratura islandese, e qui intendo specificamente quella islandese e non il termine più neutrale “nordica”, aveva ancora un'altra utilità per Tolkien: quella cioè di fornirgli un “modello di comportamento”. I nani de Lo Hobbit sono creature che attraggono, ma nessuno li definirebbe “simpatici“. Essi sono scontrosi, vendicativi, taccagni. Mantengono la parola data ma solo alla lettera, non nel suo significato. Sono leali verso i loro compagni e l'inglese “compagno” [“fellow”, ndt] è ripreso dal norreno félagi ; ma potrebbero decidere che tu non sei affatto un compagno. Quando I Nani riescono a scappare dai goblin sotto le Montagne Nebbiose senza Bilbo e discutono sul da farsi, uno di loro dice: “Se adesso dobbiamo anche tornare indietro in quegli abominevoli tunnel per cercarlo, accidenti a lui, dico io!”. Vendicativi, taccagni, prendono le cose alla lettera, a volte leali e a volte no – sono personaggi da saga islandese, e più la storia avanza, più questa caratteristica diventa prominente. L'intera storia, suggerirei, sviluppa un contrasto tra due diversi modi di comportarsi eroicamente: quello antico della saga islandese, esemplificato dai Nani, da Beorn e da Smaug, e quello moderno della vita stessa di Tolkien, della guerra del XX secolo, esemplificato da Bilbo e in un certo senso da Bard. Il contrasto di questi due comportamenti contribuisce molto a rendere la storia divertente: ma il punto d'arrivo è che, per il filologo – come l'inglese moderno e il norreno o l'inglese moderno e l'islandese moderno – essi differiscono solo superficialmente. Osservate ad esempio le parole finali di Balin il Nano a Bilbo e la sua risposta, nel capitolo 18 de Lo Hobbit, e mi prendo la libertà di darvi la versione in islandese: "Vertu sæll og gæfan fylgi þér, hvert sem þú ferð," stundi Balinn loksins upp. "Ef þú einhvern tímann gætir heimsótt okkur aftur þegar salir standa fagrir enn á ný í allri sinni dýrð, skyldum við halda veizlu sem tæki öllum fram." [“«Arrivederci, e buona fortuna, dovunque tu vada!» disse Balin alla fine. «Se mai tornerai a visitarci, quando le nostre sale si saranno rifatte belle di nuovo, allora splendidi saranno i festeggiamenti! ». « Se mai passerete dalle mie parti, » disse Bilbo «non esitate a bussare! Il tè è servito alle quattro; ma tutti voi siete benvenuti a qualsiasi ora! »” J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit, edizione Mondolibri SpA, ndt] Il loro modo di parlare è molto diverso. Ma entrambi stanno dicendo la stessa cosa. Quello che intendo dire è che la reazione di Tolkien nei confronti della letteratura nordica antica era filologica, esattamente nel senso che egli attribuiva a quella parola. Era fondata su un ben preciso senso di corrispondenze linguistiche, le quali si pensa siano da attribuire originariamente a Jacob Grimm. Queste corrispondenze, questi dettagli di filologia comparativa erano per Tolkien reali ed immediati. Essi fecero sì che egli insistesse sul pronunciare “Henjest” al posto di “Hengest”. Lo fecero insistere nell'affermare che il plurale di dwarf [nano, ndt] era dwarves e non dwarfs – a tal punto che fece cambiare all'editore centinaia di esempi di questo tipo ne Lo Hobbit, affinché il testo restasse fedele a quanto da lui scritto. Egli vedeva la filologia in ogni aspetto della vita quotidiana, compresi i cognomi delle persone del suo tempo come Neave and Woodhouse, o moderni toponimi come Hincksey - Hengestes ieg – o Brill, il modello per la Brea degli Hobbit. Per Tolkien la filologia non era solo un'insieme di corrispondenze linguistiche, ma era connessa anche con la critica letteraria, che secondo lui non poteva e non doveva essere separata dalla lingua in cui era scritta l'opera. Per questo motivo provava antipatia per i critici letterari: perché essi ignoravano puntualmente la lingua quando parlavano di letteratura. Ma pensiero e parole erano una sola cosa. Ci sono alcuni pensieri che Tolkien pose in rilievo nuovamente nelle sue Lettere, che non possono venir trasposti in parole moderne senza suonare strani. In risposta all'accusa di arcaicità inutile che gli era stata fatta, egli scrisse: “si può prendere un esempio dal capitolo da te scelto (e definito terribile)… «No, Gandalf!», rispose il re. «Tu non conosci del tutto la tua abilità nel sanare. Non farò come tu dici. Io stesso partirò in guerra, e cadrò in battaglia, se così dovrà essere. Potrò così finalmente dormire meglio». Questo è un bell'esempio – un arcaismo moderato o diluito… So abbastanza bene quello che potrebbe dire un moderno. ‘Assolutamente no, mio caro G. tu non conosci le tue proprie capacità di medico. Le cose non andranno in quel modo. Dovrò andare in guerra di persona, anche se sarò uno dei primi feriti' – e poi cosa? Théoden avrebbe certamente pensato, e probabilmente detto ‘potrò così finalmente dormire meglio'! Ma le persone che pensano in questo modo semplicemente non parlano una lingua moderna. Puoi avere ‘starei più facilmente nella mia tomba', oppure ‘in questo modo potrei dormire molto meglio nella mia tomba di come farei se invece fossi a casa' – se preferisci. Ma ci sarebbe mancanza di sincerità nel pensiero, una scissione tra parola e significato. Perché un Re che parlasse in stile moderno non penserebbe affatto alla stessa maniera e qualsiasi riferimento alla quiete del dormire nella tomba sarebbe da parte sua un deliberato arcaismo di espressione (espresso comunque in parole) molto più falso dell'inglese ‘arcaico' che ho usato io.” [7] In altre parole, se vuoi esprimere le idee di un mondo eroico devi trovare il modo di farlo in maniera moderna abbastanza perché vengano comprese, ma anche all'antica abbastanza perché sembrino vere. Direi che è questo il problema de Il Signore degli Anelli: in quest'opera Tolkien voleva esprimere un'etica eroica fissata in un mondo pre-cristiano, la quale derivò dall'epica anglosassone nonché dalla saga e dall' Edda nordica. Ma egli voleva anche fare in modo che potesse venir detta in una lingua contemporanea e che non fosse in contraddizione con la fede cristiana. Per prima cosa vorrei partire dal minor punto di corrispondenza linguistica ne Il Signore degli Anelli. Adesso sappiamo che Tolkien incontrò grandi difficoltà nel far procedere la sua storia. Secondo me, non iniziò finché non ebbe regolato, il 9 febbraio 1942, il problema delle lingue. Pensate ai Nani, con i loro nomi in norreno. Non era chiaramente possibile per i Nani avere dei nomi in norreno perché essi vissero moltissimo tempo fa, molto prima che il norreno divenisse una lingua. Quindi i nomi che Tolkien aveva dato loro in un'opera scritta in inglese moderno dovevano essere lì soltanto per dimostrare che i Nani, per comodità, parlavano una lingua che era collegata a quella degli Hobbit tanto quanto il norreno era collegato all'inglese moderno, o l'islandese moderno all'inglese moderno – e questo accade nella realtà. Se il caso era questo, allora era possibile immaginare un luogo della Terra di Mezzo nel quale si parlasse ancora l'anglosassone o perfino il gotico, un luogo in cui il Beowulf era ancora in vita. Una volta Tolkien si permise di pensare questo – e possiamo accorgercene a pagina 424 di The Treason of Isengard – e poté immaginare, facilmente e immediatamente, la società dei Cavalieri di Rohan o Riddermark contrastandoli alla società post-imperiale di Gondor; permise così che la sua storia si espandesse in un modo totalmente nuovo e in direzioni piuttosto inaspettate perfino dallo stesso Tolkien. Le corrispondenze linguistiche liberarono la sua immaginazione e fecero diventare il libro tre volte più lungo di come era stato pensato. Questa è la prima metà della filologia. Per la seconda metà bisogna aver presenti gli eventi succedutisi nella vita di Tolkien. Rimasto orfano a dodici anni, si laureò all'Università di Oxford nel 1915 e immediatamente entrò nell'esercito insieme a tutti quelli che conosceva. Combatté come ufficiale di fanteria nella Battaglia della Somme, durante la quale due dei suoi migliori amici rimasero uccisi. La Battaglia della Somme è diventata proverbiale nella storia popolare inglese per intendere disastro e futilità. Ma non credo che Tolkien la vedesse in questo modo. Per prima cosa il suo battaglione, il tredicesimo dei fucilieri del Lancashire, ne uscì incredibilmente vittorioso e ricevette le congratulazioni (credo) del Maresciallo di Campo Haig in persona per il successo ottenuto in un attacco durante gli ultimi momenti della Battaglia della Somme.[8] Secondo, egli ricordava una cosa importante che oggigiorno la gente dimentica: sia la battaglia che la guerra furono vinte, quando avrebbero potuto facilmente esser perse. Tuttavia, al tempo in cui Tolkien diventò docente ad Oxford nel 1925, l'opinione popolare era cambiata drasticamente. In quegli anni c'era l'ascesa del modernismo; di T.S. Eliot e della sua opera La terra desolata ; di Evelyn Waugh e dei suoi romanzi satirici; di E.M. Forster, Virginia Woolf e del Gruppo di Bloomsbury. Fattori comuni erano la disillusione e l'ironia, specialmente verso qualsiasi cosa che avesse a che fare con le virtù militari. Gli eroi erano fuori moda. Nel mondo moderno era impossibile prendere sul serio l'epico o la saga. O almeno, nel moderno mondo letterario. Perché risultò che le virtù militari erano tanto vitali quanto erano sempre state. Ricordiamo che l'Unione di Oxford nel 1936 votò in favore del movimento “Questa Casa non combatterà per nessuna circostanza in favore del Re o del Paese”. Ma risultò che essi non intendevano questo. Nel 1939 il governo inglese fece appello ai volontari per combattere i nazisti e ricevette 250.000 uomini il primo giorno, e un milione durante la prima settimana. Perfino Evelyn Waugh entrò nell'esercito per combattere durante la Battaglia di Creta. Fu durante queste circostanze che Tolkien iniziò a scrivere il suo romanzo eroico pre-cristiano: facendo rivivere gli antichi modelli letterari, che si dimostrarono ancora una volta vividamente contemporanei. Mostrerò soltanto un elemento che collega Il Signore degli Anelli alla letteratura eroica e mitologica nordica. E' profondamente triste, quasi senza speranza. La storia non è una cerca, non parla di trovare qualcosa, è un'anti-cerca, perché parla di buttar via qualcosa. Il prezzo del buttar via questo qualcosa è l'estinzione: gli Elfi scompariranno. E allo stesso modo scompariranno anche gli Ent e gli Hobbit: Frodo, l'eroe, è ferito in maniera incurabile. Viene portato al di là del mare, ma soltanto per morire. La parola chiave dell'ultima pagina della storia è “grigio”: gli altri personaggi cavalcano verso casa senza parlare sulla “lunga strada grigia” dal “grigio fiordo” e dal “grigio Mare”; inoltre, ci sono la “grigia cortina di pioggia” e i Porti Grigi. Qualcosa se n'è andato dal mondo, e non tornerà indietro: così sono sempre andate le cose. Molto prima durante la storia, Elrond Mezzelfo ripercorre all'indietro la sua vita e dice “ho visto molte sconfitte e molte vittorie infruttuose”. Galadriel dice a se stessa “durante le ere del mondo abbiamo combattuto la lunga sconfitta”. C'è una vittoria ne Il Signore degli Anelli, ma si intende il più chiaramente possibile che essa è locale, temporanea e a caro prezzo. I personaggi hanno solo una pallida idea – un sospetto [“inkling” in inglese, ndt] si potrebbe dire, ma il gruppo letterario di Tolkien si chiamava Inklings – di vittoria finale sul male. E questo perché sono pre-cristiani. In un certo senso Tolkien sta re-immaginando i personaggi come quelli così comuni alla saga islandese, che sono pre-cristiani, ma solo perché non sanno nient'altro – uomini e donne come Njáll, Víga-Glúmr o Guðrun che non sono cristiani, ma neanche del tutto pagani e che accetteranno una speranza migliore se qualcuno gliela offrirà. Persone di questo tipo, secondo Tolkien, continuavano ad esistere a causa della “teoria del coraggio”: questo significa andare avanti anche sapendo di combattere una “lunga sconfitta” con nessuna speranza finale. Infatti Gandalf fa continuamente delle affermazioni che hanno a che fare con la “teoria del coraggio”. Non si aspetta di vincere, sa che per Frodo c'è perfino il rischio di diventare uno spettro. “«Tuttavia», disse alzandosi improvvisamente in piedi e facendo sporgere il mento, mentre la sua barba divenne rigida e dritta come un filo teso, «dobbiamo mantenere il nostro coraggio».” Ma secondo Tolkien, questo era anche lo stato d'animo di molti suoi compatrioti negli anni Quaranta. La cristianità non era più il credo universalmente accettato come era stata una volta. Il male sembrava inconquistabile, così pure il rialzarsi da ogni sconfitta. C'era una forte tentazione a lasciar perdere, di venire a patti, di mettersi d'accordo con Sauron o con Saruman, suggerito molte volte ne Il Signore degli Anelli. Ma essi non devono farlo. Devono imparare ad andare avanti senza nessuna certezza di vittoria, senza confidare in Dio, e se necessario combattendo una lunga sconfitta. Se lo spirito dell'empio vichingo avesse potuto rivivere in tempi moderni, come è accaduto con il paganesimo e il culto di Oðinn dell'ideologia nazista, allora lo spirito del pagano virtuoso avrebbe potuto tornare in vita. Un altro aspetto della tradizione della saga: uomini come Njáll o Gunnarr, saggi, coraggiosi, che fanno del loro meglio in estreme circostanze e che vanno in fondo fino alla sconfitta, non hanno la possibilità che i loro cuori cambino. E credo sia per questo che Tolkien è rimasto così sorprendentemente famoso. La metterò in questo modo: la solita accusa fatta a Tolkien dai miei colleghi critici è quella di considerare la sua opera “evasiva”. Penso che sia l'esatto contrario della verità. Come 1984 di Orwell, Il Signore delle Mosche di Golding o Gerpla di Laxness, le opere fantastiche o antiquate di Tolkien affrontano i maggiori problemi del XX secolo come la guerra, la disperazione, il fallimento e la disillusione. Esse forniscono risposte che sembrano stranamente fuori moda ma che sono ritornate in vita. Sono risposte serie a domande serie che secondo me è evasivo ignorare. Ma le opere devono molto del loro fascino alla mescolanza di austerità e di divertimento e all'estrema sconvenienza stilistica che il mondo ha iniziato ad apprezzare nella letteratura dell'Islanda. E' stato detto con ragione che il vero eroe dell'opera di Tolkien è la Terra di Mezzo stessa. In essa egli ha ricreato la sua versione del mondo perduto del mito inglese pre-cristiano; ma ha potuto farlo solo lavorando dal mondo imponente (e fortunatamente preservato) della tradizione islandese.
Università di Saint Louis, Tom Shippey.
Grazie a MistayA per il suo aiuto.
NOTE [1] Vedi Le Lettere di J.R.R Tolkien , ed. a cura di Humphrey Carpenter con la collaborazione di Christopher Tolkien (Londra: George Allen & Unwin, 1981), #180 (14 gennaio 1956). [2] Lettere , #131, fine del 1951. [3] Vedi Tolkien, Racconti Perduti Parte 2 , ed. Christopher Tolkien (Londra: Allen & Unwin 1984), pag. 290. [4] Tolkien, The Monsters and the Critics and other essays , ed. Christopher Tolkien (Londra: HarperCollins, 1987), pagg. 25-6 [5] Vedi Snorra Edda , ed. Árni Björnsson (Reyjavik: Iðunn, 1975), pagg. 29-30. [6] La traduzione in islandese è di Þorsteinn Thorarensen, Hobbitinn (Reykjavik: Fjölvaútgáfan, 2001). [7] Lettere , #171, settembre 1955. [8] Per una conferma dobbiamo aspettare la pubblicazione dello studio completo di John Garth, Tolkien and the Great War , prossimamente edito da HarperCollins.
NOTE DELLA TRADUTTRICE 1 Il Þrymskvida , o “Lai di Þrym” si trova soltanto nel Codex Regius: Snorri non sembra citarlo nell' Edda in prosa . Parla del dio Thórr che, per riprendersi il martello magico rubatogli dai giganti, va da loro travestito da Freyja, la dea dell'amore che il gigante Þrym ha chiesto in sposa. 2 Miðgarðsormr è l'altro nome di Jörmungandr , ossia “serpe di Miðgarð”: un mostro che vive sul fondo dell'oceano e si stringe come un' anello intorno alla terra. Rappresenta una delle maggiori incarnazioni del male. 3 Il Krakumál è un'ode sulle eroiche gesta e sulla morte del re danese Ragnar Lóðbrók. Ad esso si deve molto dell'odierna immagine dei vichinghi. 4 Tra i “Carmi degli dèi”, la Völuspá (“Predizione dell'indovina”) è di grandissima importanza: in essa una veggente narra l'intero ciclo della storia del mondo, dalle origini fino al crepuscolo degli dèi. 5 Gerpla (1952), dell'islandese H.K. Laxness, è un'opera in prosa modellata sulle antiche saghe.
Bibliografia
|
|
© 1999- 2004 Eldalie.it | Spazio Offerto da Gilda Anacronisti | ||||