J.R.R. Tolkien, il '900 e Ungaretti di Umberto Bucalossi |
Cenni biografici el 1977 Humphrey Carpenter scrisse la biografia autorizzata di Tolkien. Si potrebbe riassumere il tutto proprio con una frase di Carpenter usata a p. 151 della sua opera: “Si potrebbe dire che dopo di allora non accadde nient'altro di speciale”. Il punto di svolta a cui Carpenter si riferisce è quando Tolkien, a soli trentatré anni, nel 1925 ottenne la cattedra di Studi Anglosassoni all'Università di Oxford. Jhon Ronald Reuel Tolkien nacque nel 1892 a Bloemfontein, in Sudafrica, da genitori inglesi. Tornò in Inghilterra assai presto. Il padre morì quando lui aveva quattro anni, la madre quando ne aveva dodici. Tolkien crebbe a Birmingham e dintorni. Subito dopo la laurea, nel 1915, si arruolò nei Fucilieri del Lancashire. Prestò servizio come ufficiale subalterno di fanteria sulla Somme da luglio a ottobre 1916, e in quell'anno perse sul campo due dei suoi più cari amici. Dopo la guerra lavorò per qualche tempo presso l'Oxford English Dictionary. Ottenne la cattedra all'Università di Leeds e, nel 1925, a Oxford. E, dopo tutto questo, “non accadde nient'altro di speciale”. Tolkien faceva il suo mestiere, scriveva libri, Lo Hobbit (nel 1937) e Il Signore Degli Anelli (pubblicato in tre volumi nel 1954-55) in primis. Le sue pubblicazioni a carattere accademico furono l'edizione del romance medievale Sir Gawain and the Green Knight (nel 1925) e la conferenza che tenne alla British Academy sul Beowulf (nel 1936) considerata ancora oggi il miglior saggio sull'argomento tra le migliaia che sono stati scritti. Andò in pensione nel 1959 e morì nel 1973. La critica ostile e storie di Tolkien sono fantastiche e per questo definite “letteratura d'evasione”. Questa accusa è paradossalmente falsa. I romanzi fantastici se, come i romanzi storici, hanno la pretesa di parlare del bene e del male, dei popoli e del mondo, vengono però fatti oggetto di un'accusa specifica: quella di parlare di cose che non esistono. Ma tutta la letteratura di fiction inventa persone e situazioni che non esistono e allora tutta dovrà essere condannata perché non è storia, non è biografia. Inoltre la letteratura fantastica non è considerata seria proprio perché fantastica. Ma questo è un pregiudizio peculiare del XX secolo, che, se applicato con rigore logico, dovrebbe far disprezzare l' Odissea e la Divina Commedia e il Macbeth. Oggi le persone sono maggiormente educate a leggere un testo in chiave metaforica: un lettore tolkeniano non si aspetta di veder cavalcare uno Spettro dell'Anello tra gli alberi di una foresta, ma capisce bene cosa possa significare il diventare “spettro” cioè depersonalizzato, schiavo di una tossicodipendenza. Molti autori di tipo fantastico della seconda metà del XX secolo (George Orwell, C.S. Lewis, William Golding, Kurt Vonnegut, Ursula Le Guin) trattano ampiamente - attraverso la modalità metaforica propria del genere fantastico - argomenti pubblici e politici del mondo contemporaneo, mentre gli autori del “romanzo realista borghese” (come per esempio James Joyce e Virginia Woolf) trattano di vicende private di individui, coppie, famiglie. Nel contesto di un secolo come il XX in cui le vite degli individui sono state attraversate dagli eventi politici come mai prima in qualsiasi altro momento della storia del mondo, possiamo chiederci chi siano in realtà gli “scrittori d'evasione”. Scrittori come quelli del circolo di Bloomsbury, raccolto attorno a Virginia Woolf e G.E. Moore, non danno ragione di importanti problemi specifici del XX secolo quali i regimi totalitari, i genocidi, le guerre mondiali. Sono dunque scrittori di questo tipo a poter essere chiamati “d'evasione”. Le metafore della letteratura fantastica non propongono l'evasione dal Mondo, ma spesso, al contrario, l'impegno a capire la storia del Mondo e i loro autori spesso furono veterani delle due Guerre Mondiali (Tolkien, Lewis, Orwell, Golding), e trattano argomenti di profonda rilevanza pubblica nel loro secolo. Il richiamo del fantasy di Tolkien non si basa sul semplice fascino della stravaganza, bensì su una risposta profonda e sentita ai maggiori problemi del XX secolo: l'origine e la natura del male, l'esistenza senza l'ausilio di una Rivelazione religiosa, la relatività culturale. Allegoria ed applicabilità: il '900 visto da v Tolkien i possono trovare molte connessioni tra l'opera maggiore di Tolkien, Il Signore degli Anelli , e la Storia del XX secolo. Tolkien stesso afferma che “un autore non può rimanere completamente impermeabile all'esperienza personale”. Bisogna fare però attenzione a non cadere, come spesso è stato fatto in passato, nella facile tentazione di considerare Il Signore degli Anelli un'allegoria della Seconda Guerra Mondiale. Nella “Prefazione” alla seconda edizione dell'opera, Tolkien scrisse: “Provo una cordiale antipatia per l'allegoria in tutte le sue manifestazioni”. Il brano prosegue poi respingendo con disprezzo coloro che appunto vedono nell'opera un'allegoria. Sarebbe facile in effetti fare equazioni del tipo l'Anello = la bomba atomica, la coalizione di Rohan, Gondor e la Contea = gli Alleati, Mordor = l'Asse. Ma, come scrisse Tolkien, se queste equazioni fossero vere “l'Anello sarebbe stato usato contro Sauron” come le bombe contro il Giappone; Barad-dûr sarebbe stata occupata, come fecero gli Alleati con le nazioni dell'Asse. Per quanto riguarda Saruman, l'alleato inaffidabile, presumibilmente “uguale” all'Unione Sovietica, egli “avrebbe trovato a Mordor le parti mancanti della sua personale ricerca” e avrebbe “costruito un grande Anello tutto suo”, come i Russi usarono scienziati tedeschi per realizzare la loro potenza nucleare. Tolkien diceva di preferire di gran lunga la storia, vera o fittizia, e la sua applicabilità al pensiero e all'esperienza dei lettori. Riteneva che molti confondessero l' “applicabilità” con l' “allegoria”; ma la prima fa affidamento alla libertà del lettore, mentre la seconda sottostà al dominio premeditato dell'autore. Nel Signore degli Anelli veniamo quindi ad avere una serie di situazioni, comportamenti e personaggi accostabili alla Storia del XX secolo, non perché allegoria di loro, ma perché Tolkien riproduce realisticamente tratti comuni del mondo moderno. Prendiamo ad esempio i “Ringwraiths”, gli spettri dell'Anello, che sono forse l'immagine del Male più riuscita di Tolkien. I Ringwraiths sono vuoti, questa è la loro caratteristica. Non hanno vita propria: dipendono in tutto da Sauron e dall'Anello. Questo è un aspetto interessante della visione del Male di Tolkien: il male è vuoto, è mancanza di vita indipendente. Questa è un'idea tipicamente moderna. Per i Ringwraiths il Male è come un lavoro, una routine. Tolkien stesso in quanto veterano sapeva che tutti sono capaci di cose del genere. Persone così sono “spettri”, non sanno più distinguere Bene e Male. La natura del male del XX secolo è stata molto impersonale; nessuno si dichiarava mai esecutore diretto. Il risultato sono le atrocità commesse dai burocrati del XX secolo. Sei anni prima che cominciasse la pubblicazione del Signore degli Anelli , George Orwell aveva pubblicato il suo racconto La fattoria degli Animali , che finisce, come tutti sanno, con il fallimento della rivoluzione degli animali, perché i maiali erano diventati gli agricoltori. L'applicabilità di questo racconto fu discussa furiosamente (nessuno desidera che sia applicata a sé), tranne che nel modo in cui risulta più motivata: quanto ivi accade, vale per ogni uomo. Tutti coloro che hanno preso potere, non importa quanto forti o ben intenzionati siano, prenderanno la stessa strada. Si inizia con le migliori intenzioni, ma poi tutto cambia. La gente vuole potere per compiere buone azioni, ma ottenuto il potere non riesce a separarsene e le buone intenzioni svaniscono. Per la prima volta nel 1887 Lord Acton, uno storiografo Whig, esplicitò questa idea: power tends to corrupt, and absolute power corrupts absolutely. Questa idea non sarebbe stata compresa da molti prima delle amare esperienze del XX secolo che, con i suoi totalitarismi e i suoi genocidi, è stato il secolo del Male Totale. Come ha fatto ben osservare Hannah Arendt – che per prima aveva parlato del Male Totale nel suo libro Le origini del totalitarismo – questo male è anche “banale”, non è legato necessariamente a personalità psicologiche sadiche o megalomani, ma è piuttosto un “sistema” che può essere condiviso da qualsiasi persona. Questa corruzione interclassista e omnipervasiva (nella realtà operata dal potere, nell'opera di Tolkien dall'Anello) la ritroviamo anche in 1984 di George Orwell: Ma ci sarà sempre – ricordalo Winston – sempre ci sarà l'intossicazione del potere, sempre più grande e sempre più subdola. In ogni momento ci sarà il brivido della vittoria, la sensazione di calpestare un nemico indifeso.
Saruman è un esempio perfetto di tutto ciò. Una volta era dalla parte del bene, poi lo prende la smania di fare esperimenti, di acquisire sempre più potere. Per i propri scopi sfrutta persone e vite altrui, anche distruggendole se necessario. È facile fare un paragone tra questo comportamento e, ad esempio, quello di Stalin che basa la sua forza in guerra su un serbatoio umano che sembrava inesauribile e gli consentiva di compensare le spaventose perdite subite. Ma il potere di Saruman deriva anche dalla sua voce. E qui la possibile corrispondenza con Hitler è evidente: entrambi sono capaci di creare un potere immenso con la voce, di utilizzarla per “ipnotizzare” le masse. È anche interessante notare come Tolkien ha evitato accuratamente il male puro, tranne che per Sauron; ed è strano vedere che questo personaggio, uno dei principali della storia, non appare mai. La scelta è senza dubbio azzeccata, poiché lasciare Sauron senza un corpo lo rende decisamente più spaventoso. Tanto più che per il lettore del XX secolo l'idea di un male invisibile ma presente è ben nota: instillare la paura senza una presenza effettiva è una delle prerogative dei totalitarismi. L'unica rappresentazione che abbiamo di Sauron è quella di un grande occhio; uno non due. Questo indica una sorta di monismo, di visione a senso unico che non ne ammette altre diverse. A dire il vero, secondo la visione di Sauron, tutte le altre sono da eliminare. Questo altro non è che quello che tutti i totalitarismi del XX secolo hanno cercato di fare riempiendo lager e gulag di avversari politici. E poi questo occhio che vede e controlla tutto richiama alla mente il sistema di polizia segreta di cui si sono serviti i totalitarismi e il “grande fratello” di 1984 di Orwell. Un altro episodio mostra altre analogie con la Storia. È la vicenda del Rammas Echor, la “muraglia eretta con grande fatica dopo il soccombere dell'Ithilien all'ombra del Nemico”. L'inutile difesa di questo muro porterà al ferimento e quasi alla morte di Faramir, figlio del sovrintendente di Gondor. L'immagine degli uomini e della fatica sprecati per un muro inutile poteva assai facilmente ricordare ai lettori degli anni '50 la Linea Maginot, costruita per proteggere la Francia da un'invasione tedesca, ma in ultima analisi strategicamente senza senso e con l'unico risultato di fornire un falso senso di sicurezza. Come si pone dunque Tolkien di fronte alla guerra? Il trauma della guerra: confronto tra Tolkien e Ungaretti er la sua opera Tolkien ha anche ricevuto l'accusa di essere un “guerrafondaio”, dopotutto scrive un romanzo in cui la guerra occupa una parte rilevante e dove l'eroismo in battaglia viene esaltato. Nulla di più sbagliato. Tolkien partecipò alla Prima Guerra Mondiale, stette sulla Somme per tre mesi; quando tornò dalla guerra tutti i suoi migliori amici eccetto uno erano caduti in battaglia. Tolkien odiava la guerra, eppure sosteneva che esistono cose per cui vale la pena combattere, prima tra tutte la libertà. Riteneva che la Prima Guerra Mondiale fosse stata una guerra futile, uno spreco di vite umane, una stupida guerra che non si sarebbe dovuta combattere. Invece la seconda doveva essere combattuta, così come la Guerra dell'Anello. Ma nonostante questo Tolkien sa bene che la guerra è qualcosa di terribile, non una bella avventura, e ci mostra questo aspetto in uno dei capitoli conclusivi. In “Percorrendo la Contea” i protagonisti fanno ritorno a casa ma ciò che trovano non è la terra gioiosa e verdeggiante che hanno lasciato alla partenza. Trovano invece una landa triste e squallida con alberi abbattuti, fiumi inquinati e occupata dagli scagnozzi di Saruman che stanno attuando una specie di “socialismo”, insostenibile per il popolo. Sebbene Tolkien abbia ribadito più volte che questa parte del racconto fosse previste fin dall'inizio, molti hanno voluto vedere in rispecchiati in questo capitolo la situazione dell'Inghilterra alla fine degli anni '40 e lo spettro –sospeso sull'Europa del secondo dopoguerra – di un comunismo tanto retorico nei proclami quanto banditesco nei fatti. In realtà quello che Tolkien vuole mostrare qui è che le perdite e le sofferenze della guerra non terminano con le parate trionfali, ma si trascinano nel grigiore e nella povertà. Tolkien fa dunque parte di un gruppo di “autori traumatizzati”, tutti estremamente influenti, tutti autori tendenzialmente fantasy o di fiabe (Orwell, Golding, Vonnegut, C.S.Lewis, White e Heller). Hanno tutti avuto esperienza diretta o ravvicinata di alcuni dei peggiori orrori del XX secolo: la Somme, Guernica, Dresda, il genocidio. Essi erano convinti sino in fondo di essere venuti a contatto con qualcosa di irrimediabilmente malvagio. Inoltre sentivano che le spiegazioni fornite dagli organi ufficiali della loro cultura erano disperatamente inadeguate, troppo vecchie. Di contro i filosofi morali di maggior levatura comprendevano figure come Bertrand Russel. Ma cosa mai poteva dire Russel a Lewis, ad esempio, a proposito di quanto egli aveva passato nelle Fiandre? Durante la I Guerra Mondiale Russel era un pacifista, posizione onorevole ma, per gli “autori traumatizzati”, non certo di grande aiuto. Nessuno di loro però ha voltato le spalle a quegli eventi. Hanno trovato il modo di parlarne e di commentarli. È strano che in molti casi tutto questo abbia dovuto coinvolgere il fantasy. Anche in Italia abbiamo autori che hanno combattuto nella I Guerra Mondiale; quello che più di tutti ha riversato nella sua produzione la sua esperienza è certamente Ungaretti. Chiamato in guerra come soldato semplice combatté prima sul Carso poi, nel 1918, sul fronte francese. La sua esperienza di vita di guerra nelle trincee lo porta a dare un taglio autobiografico alla sua prima produzione ( L'allegria ). Nelle esperienze dei due autori si possono trovare alcune analogie. Ad esempio Ungaretti in “S.Martino del Carso” dice che “di tanti/ che mi corrispondevano/ non è rimasto/ neppure tanto” e questo rimanda all'esperienza di Tolkien che, come già detto, perse quasi tutti i suoi amici in guerra. Come non notare la vicinanza tra l'Ungaretti di “Veglia” che in trincea scrive “lettere piene d'amore” e Tolkien che proprio in trincea butta giù a matita su un quadernetto le prime vicende della sua personale mitologia. Si tratta del “ Book of Lost Tales ”, le prime storie elfiche sui tempi antichi che narrano di lotte contro un male quasi invincibile, ma sono piene di speranza. Ungaretti afferma che nella sua poesia non c'è traccia d'odio per il nemico; questo avviene anche in Tolkien: uno dei principali personaggi negativi (Gollum) è trattato per tutto il romanzo in modo che il lettore stesso provi compassione per lui, per la sua condizione. La campagna desolata e distrutta della Contea ricorda le case del Carso ridotte brandelli. Ma sullo sfondo di tale tragedia e di tale rovina resta possibile per entrambi l'espressione della vitalità e dello slancio positivo che si traducono in Tolkien con la creazione di personaggi, gli Hobbit, che sanno ridere tra loro anche nei momenti più cupi; in Ungaretti nell'Allegria che da titolo alla sua opera, in una poesia che diventa punto d'incontro tra la coscienza della tragedia e il bisogno invincibile di positività vitale. Con tali presupposti Tolkien vene a delineare una figura particolare di eroe. La forza dell'eroe: confronto tra gli eroi v tolkeniani e gli eroi della letteratura greca molto interessante, per la comprensione dell'opera e del pensiero di Tolkien, analizzare come egli abbia caratterizzato i suoi eroi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, visto il tipo di racconto, gli eroi tolkeniani non rappresentano il perfetto modello di virtù quali l'ardore bellico e la capacità di superare ogni avversità solo con le proprie forze, come potevano essere Ettore e Achille. Si avvicinano molto di più agli eroi tragici; sono infatti tormentati dai dubbi, dalle loro debolezze. La vicenda stessa è più vicina ad una tragedia che a un poema epico. Tolkien crea infatti un continuo senso di incertezza, tutto è sospeso e in balia del caso; in Euripide tutto era sovrastato dalla tu ´ ch. E proprio come Euripide, Tolkien non mostra il grande guerriero che vanta il suo coraggio in battaglia, ma mostra come la vita stessa sia una battaglia. Nonostante i grandi scontri abbondino nel romanzo, alcuni di coloro che vi prendono parte (i personaggi principali) non sono affatto grandi guerrieri ma persone che fino a poco prima avevano condotto una vita semplice e normale. In un'intervista Tolkien disse che era sempre stato “molto colpito dal fatto che noi siamo qui e sopravviviamo grazie all'indomito coraggio di gente molto piccola che combatte con probabilità di vittoria impossibili”. Compie la stessa operazione di Euripide, non abbassa il mondo eroico a un livello “borghese”, ma innalza la vita di tutti i giorni al livello eroico. Una tematica tipica della tragedia è quella dell'ereditarietà della colpa e di fronte ad essa Tolkien assume due atteggiamenti diversi; nel Signore degli Anelli tende a comportarsi come Sofocle che la riduce quasi fino a farla scomparire. Vediamo come: vi è un personaggio, Aragorn, il cui destino è divenire re degli Uomini e guidarli nella lotta contro il male. Nonostante il fato gli dia questa opportunità di ottenere un grande potere, egli preferisce diventare un ramingo, combattere il male passando inosservato, senza coprirsi di gloria, procrastinando il più possibile il momento di accettare il suo destino. Questo non perché voglia sottrarsi ai suoi doveri, ma perché teme di commettere gli stessi errori dei suoi avi. Quando alla fine accetta il suo destino, si rivela completamente diverso da coloro che l'avevano preceduto. Per quanto riguarda un'altra opera, il Silmarillion , Tolkien riprende il concetto di ereditarietà della colpa tanto caro ad Eschilo. Bisogna innanzitutto dire che si tratta di un'opera molto particolare. Non si tratta di un romanzo, potrebbe invece essere considerato un a specie di compendio mitologico, peraltro di non facile lettura. Questo perché l'opera copre alcuni millenni della storia della Terra di Mezzo a partire dall'origine stessa del mondo. Si incontra quindi un'enorme mole di nomi di personaggi, luoghi, oggetti; tant'è che da alcuni è stato definito “un elenco telefonico in Elfico”. Tolkien vuole qui analizzare la storia delle varie stirpi eliche, fornendo al tutto un'aura mitica. Rispolvera così la teoria dell'ereditarietà della colpa, ottenendo l'effetto voluto. Le vicende di vendette che si trascinano per generazioni richiamano miti come quello di Oreste, ultimo in ordine di tempo a scontare la colpa dell'avo Tieste, o quello di Edipo, che si conclude con la lotta fratricida tra Polinice ed Eteocle. Il Silmarillion può essere in buona parte visto come una complessa tragedia di commistione di stirpi. Venendo invece al protagonista, è significativo che Tolkien abbia assegnato questo ruolo non a un Uomo né tanto meno ad un elfo, figure portatrici di valori come l'onore e la saggezza, ma a un mezz'uomo. Un essere piccolo, insignificante, trattato con disprezzo dalle altre razze, rappresentante delle virtù casalinghe, di simboli come il fuoco, la pipa, il letto. È chiaramente l'antitesi dell'eroe classico: piange per la paura, vacilla per lo sfinimento, è oppresso da montagne di dubbi. E poi, dato essenziale, a differenza degli eroi classici, Frodo fallisce la sua missione. O meglio, la missione ha buon esito, ma per opera del fato, non sua: al momento cruciale, in cui deve distruggere l'Anello, cede, rinuncia alla sua missione; sceglie di non fare ciò per cui ha lottato. Ferito nell'anima per sempre a causa di un sortilegio, alla fine abbandona il mondo per ritirarsi nelle Terre Imperiture per guarire. Non gli vengono quindi attribuite né una vittoria assoluta né una morte gloriosa, prerogative degli eroi epici. In quest'opera Tolkien ha anche voluto mostrare come i nostri fati siano interconnessi, come l'eroismo individuale serva a poco. Senza l'eroismo di tutti coloro che hanno aiutato Frodo egli avrebbe fallito. Tutti i personaggi principali hanno l'occasione di mostrare il loro coraggio, ma nel farlo non sono mai soli: hanno sempre affianco qualcuno che li aiuta, li consiglia, li motiva. Questo tipo di eroe si avvicina molto al Giasone delle Argonautiche di Apollonio Rodio. Spesso nell'opera viene fatto notare come, senza l'aiuto di altri personaggi, non riuscirebbe nell'impresa a causa della sua amhcani ´ a (incapacità di trovare soluzioni) di fronte ai casi che gli si presentano; un'incapacità che non è solo impotenza, ma spesso anche profonda incertezza: egli non compie, con il suo coraggio e le sue forze, nessuna impresa degna di un eroe e, peggio ancora, non tiene fede al suo ruolo di capo dimostrandosi in varie occasioni sopraffatto dal dubbio. Nessuno degli Argonauti possiede le caratteristiche dell'eroe tradizionale, tranne Eracle. Egli incarna vigoria e risolutezza e sa incedere prepotentemente sugli eventi. Tolkien evita accuratamente di creare una figura simile riconoscendone l'irrealisticità. Giasone non è quindi più un eroe epico a metà tra l'uomo e la divinità, capace di scegliere e determinare il proprio e l'altrui destino, bensì un eroe tragico, rappresentato con tutte le fragilità tipiche dell'uomo, messo costantemente di fronte a un fato più forte e più grande di lui, proprio come Frodo. Gli eroi tolkeniani pur essendo “deboli” hanno una grandissima dose di coraggio, ma non è un coraggio comune. Speranza senza garanzie: la filosofia di Tolkien ran parte del libro è un sermone contro sconforto e disperazione che Tolkien considera naturali in certe circostanze,ma devono essere contrastati. “Percorrendo la Contea” mostra una società che soffre non solo per il malgoverno, ma anche per una strana e generalizzata sfiducia. Una simile diagnosi dell'Inghilterra fu fatta da George Orwell in Una boccata d'aria (1938). In questa opera la cosa strana, inesplicabile è che sebbene il personaggio principale sappia perfettamente cosa vuole fare nella propria vita, non ne ha mai la possibilità, se non quando è troppo tardi. Perché ha accettato di veder sprecata la sua vita e le sue speranze? Perché, per tornare alla Terra di Mezzo, gli Hobbit si lasciano spadroneggiare, quando è chiaro che hanno la forza di opporsi e si trovano di fronte assai poca resistenza quando lo fanno? Sono smarriti, non hanno una guida. La risposta a tutto questo nel Signore degli Anelli è il corno di Rohan. Quando viene suonato la paralisi svanisce, tutti sembrano svegliarsi. Non solo sanno cosa vogliono, ma non hanno neanche alcuna esitazione nel prenderselo. Il corno di Rohan rappresenta il rifiuto della disperazione che è la principale arma di Sauron. Una delle caratteristiche principali degli Spettri dell'Anello è proprio quella di creare panico; a un certo punto leggiamo che il loro urlo trafigge “il cuore con una velenosa disperazione”. In che modo reagiscono i personaggi alla disperazione? Come i suoi migliori amici morti nelle Fiandre, Tolkien probabilmente non aveva alcuna pazienza verso il disfattismo, perché allora insistere così tanto sul timore della sconfitta? Queste due domande trovano un'unica risposta. Tolkien voleva reintrodurre “la teoria del coraggio”. La mitologia nordica prevedeva, come il cristianesimo, un Giorno del Giudizio in cui le forze del bene e del male giungevano allo scontro definitivo. La differenza sta che nella mitologia nordica sono le forze del male a vincere. Se gli dei e i loro alleati umani stanno per perdere e questo è noto a tutti, che cosa dovrebbe spingere ad allearsi con la parte perdente? La risposta veramente coraggiosa è dire che la vittoria o la sconfitta non hanno niente a che fare con la ragione o il torto, e che se persino l'universo è controllato dalle forze ostili e malvagie, questo non è sufficiente a far cambiare bandiera a un eroe. Gli elfi hanno combattuto la “lunga sconfitta”: sapevano che avrebbero perduto da migliaia di anni ma continuarono a lottare finché furono sconfitti. La mitologia nordica non offre un paradiso, né salvezza, né compenso per la virtù se si eccettua la soddisfazione di aver fatto del bene. Tolkien voleva che i suoi personaggi vivessero allo stesso grado di eccellenza, e si preoccupò di allontanare da essi le facili speranze. Per questo nel mondo da lui creato manca una rivelazione religiosa che dia speranza. Tolkien sostiene però che si può trovare speranza anche quando sembra non essercene più. Il coraggio si dimostra perseverando anche quando la speranza è morta; combatti anche se sai di essere destinato a perdere. Tolkien usava questa frase: speranza senza garanzie. È un'ottima descrizione del contenuto dei suoi libri. La disperazione è per coloro che conoscono il futuro. Ma nessuno è in quella posizione. Quindi la disperazione non è solo un peccato in senso religioso, è anche un semplice errore perché nessuno può sapere cosa accadrà. In questo senso c'è sempre speranza. Pipino a Minas Tirith, quando la situazione sembra ormai compromessa, dichiara “il mio cuore rifiuta di disperare”. Riguardo a un altro dei personaggi principali, Sam, Tolkien ci dice che egli non aveva “mai avuto speranza del buon esito della faccenda; ma poiché era un hobbit allegro, la speranza era cosa superflua fin quando la disperazione poteva essere rimandata”. Simili concetti si possono trovare in un filosofo contemporaneo a Tolkien: Heidegger (1889-1976). Egli, ad esempio, sostiene che l'esistenza non sia una realtà fissa e predeterminata, ma un insieme di possibilità fra cui l'Uomo deve scegliere. Tutto il romanzo è una continua serie di scelte da parte dei personaggi. Scelte fatte in base a ciò che essi sono, non in base a ciò che accadrà, perché, come si è detto, non vi sono mai certezze ultime sull'esito della vicenda. Vi si può pertanto trovare anche l'altro importante concetto di Heidegger: l'essere-per-la-morte. Questo non è un tentativo di realizzarla, né un'attesa, ma la semplice consapevolezza che la morte è la possibilità più propria, incondizionata, certa e insuperabile dell'Esserci. Tutti i personaggi, quando partono per la loro missione, hanno benissimo in mente questo concetto e man mano che procedono sono sempre più sicuri che non faranno ritorno alle loro dimore. Ma nonostante questo continuano, perché hanno fatto una scelta. Conclusioni: la fortuna di Tolkien itengo, alla fine di questo percorso, aver dimostrato come Tolkien sai stato un autore da considerarsi tutt'altro che di poco conto. Nella sua produzione confluiscono infatti tematiche classiche, problematiche contemporanee ed istanze personali. Il grande merito di Tolkien, da alcuni ritenuto un difetto, è stato quello di saperle rielaborare dandogli organicità in una forma inconsueta. Il genere fantasy, che oggigiorno è un genere commerciale di grande successo, esisteva già prima di Tolkien e si potrebbe dire che si sarebbe sviluppato anche senza il grande successo del Signore degli Anelli. Questo, però, sembra abbastanza improbabile. Quando Il Signore degli Anelli venne pubblicato nel 1954-55, il libro si configurava come un divertimento. Qualsiasi indagine di mercato ne avrebbe altamente sconsigliato la pubblicazione. Ci si può solo meravigliare, tornando a quegli anni, della sicurezza e della determinazione di Stanley Unwin nel voler pubblicare il libro. Inoltre Unwin aveva continuato a fornire supporto allo scrittore durante una gestazione di diciassette anni che alla fine diede un prodotto alquanto diverso da quello prospettato all'inizio. Certo Unwin non dovette pagare le somme che dovettero invece pagare i sostenitori di Joyce mentre egli produceva l'Ulisse, ma Tolkien non ebbe mai il tipo di supporto da parte di una élite letteraria professionale su cui Joyce e i suoi benefattori potevano contare. Comunque, mentre l'Ulisse ha avuto pochi imitatori, dopo la pubblicazione del Signore degli Anelli la “trilogia” in stile fantasy assunse quasi il ruolo di forma letteraria standard. Tolkien spalancò un continente di spazio immaginativo a milioni di lettori e centinaia di scrittori. Certo la popolarità non garantisce la qualità. Ma non si manifesta per puro caso. I dati delle vendite di Tolkien hanno sempre rappresentato un grosso fastidio per i suoi detrattori, e sin dagli anni Sessanta andarono predicendo che le vendite si sarebbero presto sgonfiate. Nel 1997 la questione della popolarità venne in primo piano in maniera eclatante. La catena di librerie Waterston e la BBC fecero un sondaggio tra i lettori per proclamare “i cinque libri più importanti del secolo”. Su ventiseimila lettori, circa cinquemila indicarono come loro libro preferito Il Signore degli Anelli: ovunque fu il più votato. Il risultato fu accolto con orrore dai critici professionisti e il Daily Telegraph decise di ripetere il sondaggio tra i suoi lettori, nettamente diversi da quelli della Waterston. Il risultato fu il medesimo. Come fu il medesimo in altri due sondaggi con basi molto ampie (intorno alle cinquantamila persone). Nel 1999 ve ne fu un altro in cui Il Signore degli Anelli risultava, finalmente, al secondo posto. Il sondaggio era stato fatto sulla base del numero di copie vendute e il primo posto era occupato dalla Bibbia.
1 A cura di Christopher Tolkien 2 A cura di Christopher Tolkien
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