J. R. R. Tolkien: "Il Signore degli Anelli" - Mitologia, Filosofia, Allegoria
"Facharbeit" - Saggio di Manuel Steiner, scritto nel ´00 p.r.i.

oggiacente a tutte le opere di Tolkien è la filologia, sia dal lato professionale che per il puro amore per linguaggio e parole. Suono e tono di certi linguaggi ed opere presero il cuore di Tolkien letteralmente d'assalto. Fu il caso del Gotico; fu tale col Finnico, al quale il suo inventato linguaggio elfico Quenya rassomiglia, e fu tale col Gallese, il quale ispirò il suo linguaggio Sindarin.
Linguaggi, e non di rado singoli vocaboli da soli lo ispirarono grandemente per la sua narrativa; invero, "egli pensava che le idee gli pervenissero [...] attraverso le ascose risonanze di nomi e linguaggi" (Shippey, 263; mio corsivo). Questo è il luogo in cui la filologia entra in gioco. Tolkien era grandemente interessato alle parole ed alla loro storia - si legga la loro etimologia - e ciò espresse nella narrativa. In tal modo, egli tentò di introdurre il mondo delle parole che apprezzava tanto sia entro un contesto mitologico che entro un'ambientazione storica che presentò come fatto. Per citare egli stesso: "Mi piace la storia, e sono commosso da essa, ma i suoi migliori momenti per me sono quelli in cui si fa luce su parole e nomi" (Shippey, 62). Siccome non era questo il caso che si desse così di sovente, egli tentò di correggersi, dando nomi e vocaboli a storie che naturalmente egli dapprima aveva inventato, dal momento che alcunché d'altro sarebbe andato contro i suoi propri principi se avesse assunto che un linguaggio fosse esistito prima dei nostri tempi - ma che effettivamente non lo fu mai. Per tali linguaggi inventati, la storia nella sua narrativa è secondaria, minore in importanza che non nel processo di creazione in cui i linguaggi erano primari; la sua narrativa fu sviluppata come un metodo per presentarli. Come egli stesso ammise, "Le ´storie´ furono piuttosto ideate a fornire un mondo per i linguaggi che non l'inverso!" (Shippey, 22; citato da Letters of J.R.R. Tolkien, ed. Humphrey Carpenter, 219).
Assieme a ciò la credenza di Tolkien in un "intimo valore" dei linguaggi; era convinto che "le persone possano avvertire la storia nelle parole, possano riconoscere gli stili dei linguaggi, possano estrarre senso dal suono soltanto" (Shippey, 104). Qui Tolkien potrebbe trarre conclusioni da sé su quello che altri pensino, ma per lui probabilmente esistette un linguaggio nel quale ogni cosa aveva il suo proprio, rispettivo e vero nome, perfettamente adatto e intelligibile ad ognuno. Tali assunti sono espressi nel personaggio di Tom Bombadil, che fu, simil-Adamo, il primo a dare ad ogni cosa il suo confacente nome, isomorfo con la realtà.
Tutto questo insieme spiega l'opinione di Tolkien che la sua opera fosse "in larga misura un saggio in estetica linguistica." (Shippey, 104; citato da Letters of J.R.R. Tolkien, ed. Humphrey Carpenter, 220). All'apparenza Tolkien gradiva realmente usare "nomi parlanti". Ossia, tutti i predecessori di Éomer erano chiamati con qualche termine Anglosassone per "re", oppure il nome di Gandalf "nel Sud" era Incanus, Latino per canuto. Un altro esempio, trascurato nelle varie opere di seri autori e critici, è il nome del Vecchio Tuc, il più anziano hobbit di sempre: Gerontius non significa altro che "alla maniera di un uomo molto anziano"[3]. In ogni caso, il significato descrive chi è nominato, e "metter nome è conoscere" (Moseley, 54).
La profondità, qualità che Tolkien valutò per la maggior parte in ogni opera, è, a parte i suoi linguaggi inventati, principalmente conseguita dai nomi che danno contributo a persone ed oggetti. A formare un contrasto con la letteratura - che Tolkien vedeva come opposto dell'antico spirito contenuto nell'anticaa letteratura inglese, non da meno il suo assai adorato poema epico Beowulf - sua mira fu di utilizzare la filologia - quel che chiamò "lo speciale fardello delle lingue Nordiche, [...] lo speciale vantaggio che possiedono quanto a disciplina" (Shippey, 8) - allo scopo di ridestare tale spirito. Così, non sorprendentemente, l'intera sua narrativa è edificata sulle parole, sull'etimologia, la filologia. Egli derivò una gran quantità del suo cosmo solamente dalle tradizioni, gli antichi racconti di Elfi, Nani, Ent e Dragoni che volle presentare; e siccome erano fatti filologici, è comprensibile che, nonostante la sua mescolanza di poesia con filologia, l'esito narrativo regga un certo grado di realismo. Altri nomi, per esempio i nomi di luogo nella Contea, hanno controparti esistenti, principalmente nella regione sulla quale la Contea fu più o meno esattamente modellata, i.e. i dintorni del Worcestershire. In tal proposito, vi sono due divergenti tipi di nomi nella Terra di Mezzo: nomi sui quali fu inventata una storia, un personaggio oppure un luogo ("I nomi generano sempre una storia nella mia mente" (Shippey,60), disse Tolkien); e quelli che recano un nome dato dopo la loro invenzione; quantunque nell'ultimo caso sia possibile che l'autore avesse tale idea, tale nome, in mente fin dal principio.
Il Signore degli Anelli agisce esattamente in conformità con il principio di Tolkien per cui "la parola narra la storia" (Shippey,15), come egli ammise in una delle sue lettere (comp. Shippey, 15); il principio per cui un'etichetta dice molto a chi la sa lunga. Un filologo - tale come Tolkien medesimo - dovrebbe riconoscere il significato nascosto di persone e luoghi rivelato nei loro nomi, e l'importanza di tale nome-significato non è da sottostimarsi. Se il nome, "etichetta", e la percezione divergono, entrambi dovrebbero essere tenuti in conto. È probabile che Tolkien abbia dato alla prima la priorità; come è con Aragorn, in realtà Elessar, la "Elfica-stella"[4], che appare cupo e probabilmente malevolo al primo incontro. Ma qui le linee del poema sono provvidenziali per scoprirne l'indole: "Non tutto quell ch'è oro brilla / Né gli erranti sono perduti.". Qui, come T. A. Shippey faceva notare: "la credenza di Tolkien era ´che la parola autentica l'oggetto´" (Shippey,51; mio corsivo).
In conclusione, per come stanno le cose effettivamente l'intero Signore degli Anelli fu fondato sulla base della filologia, e l'ispirazione che Tolkien trasse dalle parole, ed è logico che non si possa seguire il modo di pensare di Tolkien senza tener conto di ciò come uno dei più fondanti fattori per lui e le sue opere. Virtualmente, "non v'è divisione tra la filologia di Tolkien e la sua narrativa." (Moseley, 1).


[3] Va detto che, agli occhi di un lettore italiano, tale caratteristica dei nomi latini dovrebbe risultare tanto più intuibile quanto il senso di Baggins rende l'idea, per il lettore anglofono, dell'opulenza della stirpe di Bilbo: si veda la nota introduttiva di Quirino Principe nell'edizione pubblicata di SdA.

[4] "Gemma elfica" nell'edizione italiana.

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