Aspetti religiosi dei Celti: il Druidismo
di Antonio "Silendil" Simone

el mese di Marzo del non lontano 1991, nella splendida cornice di Palazzo Grassi, in Venezia, si tenne la prima grande mostra, In Italia, sui Celti.
Appassionati da tempo di questo argomento (devo dire, in verità, soprattutto Antonia, la mia dolce compagna), ci recammo alla Mostra con grande emozione.
Appena entrati, la nostra attenzione fu subito catturata dalla splendida statua del "Galata Morente", che faceva bella mostra di sé nel grande atrio di Palazzo Grassi, con notevole, sicuro impatto sui visitatori tutti.
I pezzi esposti erano veramente tanti, ed ognuno di essi meriterebbe una relazione specifica.
Provenivano dai più disparati angoli del mondo celtico, che sappiamo essere vastissimo; infatti, alcuni provenivano dall'odierna Bulgaria, dall'Austria, dalla Danimarca, dalla Spagna, perfino dalla lontana Turchia, oltre che, naturalmente, dall'Italia.
Nel corso della visita, peraltro entusiasmante, avvertivamo però una nota discordante, che ci avrebbe accompagnati fino alla fine.
Mentre il treno sul quale viaggiavamo attraversava la pianura padana, che di innumeri avvenimenti celtici fu muta spettatrice, riportandoci alla nostra bella Bologna (che non a caso prende il nome dall'insediamento celtico della tribù dei Galli Boi, da cui poi all'etrusco Felsina seguì il latino Bononia), tornavamo con la mente alla mostra, e lentamente emergeva alla nostra coscienza il particolare che per ore non eravamo riusciti a focalizzare.
La mostra, veramente molto organica ed ottimamente strutturata nella sua esposizione, aveva a nostro avviso trattato in modo purtroppo superficiale, per brevi ed incompleti cenni, un aspetto della loro cultura che invece riteniamo meritare ben diversa considerazione e trattazione: la religione e la cosmogonia secondo i Celti.
Benché sulle pareti e sui pannelli (oltre alle numerose statue ed i molti reperti) situati lungo il percorso all'attenzione di noi visitatori venissero sottoposte diverse citazioni anche su questo argomento (peraltro di autori latini, perlopiù), e nonostante l'inquietante presenza di un reperto quale il Calderone di Gundestrup, muto testimone di sanguinosi riti sacrificali, la mostra poneva maggiormente in risalto aspetti quotidiani della cultura celtica, quali l'artigianato, la migrazione, il principe ed il guerriero, l'ingegneria militare degli oppida eccetera, rari erano i riferimenti attorno a questo aspetto invece così fondamentale, al punto di costituire, unico esempio, un vero fenomeno di panceltismo culturale.
E' nostra intenzione, nelle righe che seguono, porre un bonario rimedio a questa indubbiamente involontaria svista dei pur valentissimi organizzatori di questa splendida mostra, che ha portato alla conoscenza dei più gli aspetti salienti di questa affascinante cultura che grandemente doveva influenzare la NOSTRA cultura, forse alla stessa stregua di quella latina.
Purtroppo, l'interdizione culturale secondo la tradizione celtica dell'uso della scrittura, ha provocato l'effetto negativo, per i posteri, di vedere ridotte drammaticamente le possibilità di raccogliere informazioni dettagliate sull'aspetto religioso e sul Pantheon celtico.
Oltre a ciò, ci sono pervenute solo tradizioni registrate in tempi molto posteriori, già in età cristiana, oltre a citazioni di autori greci e latini che descrivono immagini quasi sempre impossibili da identificare per la costante mancanza dei nomi originali.
Della cosmogonia celtica abbiamo quindi solo brandelli, collegati peraltro ad una onnipresente simbologia nella quotidianità dei Celti e nelle loro espressioni artistiche.
Ad esempio la palmetta (simbolo dell'albero della vita), la doppia foglia di vischio, pianta sacrale per eccellenza, alla quale erano legati innumerevoli aspetti del culto druidico, di cui parleremo più avanti in questa sede.
Infine, di non trascurabile importanza, la presenza ossessionante, nelle raffigurazioni artistiche o nei manufatti artigianali, della doppia S, raffigurata specularmente, come nell'ansa della brocca da vino di Waldalgesheim, proveniente dalla Renania e risalente al V secolo A.C.
Questa doppia S fiancheggia ed incornicia ai lati una raffigurazione antropomorfa a sostegno dei manici della brocca stessa.
In effetti, la testimonianza più sicura dell'universo spirituale dei Celti indipendenti, universo tutt'altro che primitivo, ci viene dalle loro opere d'arte.
Esse tuttavia hanno fornito purtroppo solo immagini anonime poiché i Celti, diversamente dai Greci e dagli Etruschi, non utilizzavano la scrittura, in osservanza dell'interdetto culturale già citato, neppure quando in realtà ne padroneggiavano l'uso (i Celti conoscevano il greco e il latino), per identificare le divinità raffigurate nelle loro opere.
Le rarissime iscrizioni celtiche d'epoca preromana, alcune dediche d'ambito religioso, provengono tutte da quelle regioni che si trovavano a più diretto contatto col mondo e la cultura mediterranea, zone già urbanizzate o sulla via di divenire urbanizzate.
Le varie raffigurazioni pervenuteci accompagnate da iscrizioni sono tutte di epoca romana.
Lo stesso dicasi per i testi scritti di una certa lunghezza, invero poco numerosi e relativi a pratiche magiche del tutto marginali.
Tali testi infatti sono risultati di scarso significato ai fini di una organica conoscenza della religione ufficiale.
La religione celtica, al pari della maggior parte delle altre religioni dell'antichità, non doveva costituire un insieme organico e definito, nei suoi vari aspetti.
Doveva trattarsi invece di un colorito pantheon popolato da una moltitudine di dèi tribali, di divinità territoriali (come i Jinn mediorientali o i Kami nipponici) spesse volte di origine preceltica, scaturiti da culti propri di specifici gruppi sociali, raggruppati in un sistema molto elastico raccolto attorno a poche grandi divinità a diffusione panceltica nel pur comune fondo del tessuto cosmogonico celtico.
E' facile immaginare, ed autori come Elemire Zolla e Mircea Eliade lo hanno spesso confermato nei loro scritti, che la gerarchia del mondo divino era considerata il risultato delle lotte feroci in cui si erano trovate contrapposte le successive generazioni di divinità che avevano dominato l'universo già prima dell'avvento degli umani, dal primordiale Caos fino a giungere ad un ordine equilibrato la cui conservazione era assicurata dalla supremazia dei grandi dèi celtici sui loro predecessori, sottomessi o addirittura annientati.
Era opinione comune che tra gli dèi vigessero gli stessi rapporti esistenti tra "clientes" e protettori, tra nobili e sovrano e tra il sovrano e la sua divinità tutelare.
Questo genere di rapporti, nel mondo divino, rifletteva ovviamente la medesima struttura dei rapporti esistenti tra gli esseri umani.
Poiché l'organizzazione gerarchica degli dèi era quindi una proiezione celeste di quella degli esseri umani, la vittoria e la preponderanza di un gruppo divino su un altro gruppo doveva giocoforza essere la conseguenza di una modificazione dell'equilibrio di forze tra le rispettive divinità tutelari dei vari gruppi umani.
I primi accenni degli autori greci alla religione dei misteriosi paesi a Nord del Mediterraneo (da loro identificati con il nome di "Iperborei"), erano considerati leggendari già nell'antichità.
Un grande protagonista della storia, Gaio Giulio Cesare, nel "De Bello Gallico", ci offre la testimonianza più antica e dettagliata sul Pantheon celtico, elencando con precisione i suoi grandi dèi e definendo con lucida chiarezza le rispettive funzioni ed attributi.
Ahinoi, Cesare non li menziona con gli originali nomi gallici, ma con gli equivalenti nomi romani.
Dopo Mercurio (il Lug celtico, sul quale torneremo), gran dio polivalente e sovrano sugli altri dèi, Cesare ricorda Apollo, che scaccia le malattie, Minerva, che trasmette i principi delle arti e dei mestieri, Giove, che regna sui cieli, e Marte, che presiede alle guerre.
Secondo autorevoli autori come il già ricordato Mircea Eliade ed un altro grande studioso di questi temi quale il purtroppo scomparso (alcuni anni or sono) George Dùmezil, queste divinità corrispondono alle tre funzioni-base del sistema sociale indo-europeo: la funzione sacra/ rappresentata da Giove; la funzione guerriera, rappresentata da Marte; infine, la funzione produttrice, rappresentata da Apollo e Minerva.
Dagli scritti del poeta Lucano ricaviamo per fortuna i nomi delle corrispondenti divinità galliche: Teutates, il dio che guida e protegge la tribù in guerra (Marte).
Il suo nome appartiene alla stessa radice del termine celtico che designa la tribù (riscontrabile ancora nella lingua parlata sopravvissuta nelle isole irlandesi in "Tuath", gente).
Taranis, corrispondente al Giove latino a causa del suo attributo che ne designa la collocazione: il tuono (derivato dal termine gallico Taran), ed il cui simbolo è la ruota.
Esus, il Buono, equivalente del Dagda irlandese (personaggio spesso ricorrente nei miti dei Celti delle isole), secondo per importanza dopo il dio Lug e padre della grande dèa Birgit (corrispondente nella cosmogonia latina a Minerva).
A queste tre divinità venivano usualmente offerte, in particolari ricorrenze importanti, anche sacrifici umani, data la loro importanza.
Altri dèi minori (il pantheon celtico, strutturato fenomenologicamente, era molto vasto ed articolato, in base ai particolari attributi) erano Sucellus, dio dei morti e delle regioni infere; Belenos, il dio guaritore, antagonista di Sucellus, che lavorava spesso a fianco del citato Esus; Epona, dea della guerra (esisteva quindi anche una versione femminile del latino Marte; in Irlanda, tale divinità veniva chiamata Morrigan); Amora, dea delle mosche e di tutti gli insetti in generale, simbolo della trasmutazione degli elementi; Damona, dea delle giovenche e degli armenti più in generale; Cernunnos, (raffigurato sul meraviglioso Calderone già citato, ritrovato a Gundestrup, in Danimarca, con corna di cervo e stringente nella mano sinistra un serpe con testa di ariete), nume tutelare degli animali selvatici in generale; infine, non meno importante degli altri, una sorta di Giano bifronte, cui i Celti davano l'appellativo di "Colui che Osserva", per la sua particolare proprietà di potere vedere contemporaneamente in avanti ed all'indietro, con una perfetta visuale a 360°.
Trattazione a parte merita, come dicevamo, il supremo dio Lug.
Lug, il più potente degli dèi dei Celti, era associato da Cesare al Mercurio romano, come detto, in quanto considerato l'inventore di tutte le arti, il signore delle vie e dei viaggi, il grande patrono dei guadagni e del commercio.
Il primo giorno di Agosto i Celti festeggiavano la Lugnasad, in onore di questo dio.
Questa festa fu poi sostituita per opera dei romani dalla festa di Augusto, che la imposero a partire dal 12 A.C.
Da Lug presero il nome varie agglomerazioni, tra le quali la più importante fu Lugdunum (la Fortezza di Lug, l'odierna Lione, in Francia), capitale delle Tre Gallie (da Cesare, "De bello Gallico"), la cui fondazione veniva associata secondo la tradizione al corvo, simbolo guerriero celtico per eccellenza.
Conosciuto anche dai testi irlandesi (Celti delle isole), Lug "II Luminoso" regna sovrano in Irlanda sull'ultima generazione dei Tuatha Dé Danann (tribù, o gente, della dea Dana).
Egli porta il soprannome di Samildanach, (abile in molte arti), e il suo nome è spesso seguito dall'epiteto "dal lungo braccio" che ne sottolinea la natura solare, come pure la predilezione per l'uso del giavellotto e della fionda, armi che colpiscono a distanza, come i caldi raggi del sole, suo simbolo.
Egli è l'archetipo della funzione reale, e dalla sua unione con Eithe (la Terra d'Irlanda), nasce Cù Chulainn, il mitico eroe tribale del Regno dell'Ulster, protagonista del ciclo epico irlandese, di cui intendiamo occuparci in una prossima occasione.
Altra festa di particolare rilievo era quella di Beltane o Beltaine, che cadeva il 1° Maggio.
Beltaine era la stagione della procreazione, dei matrimoni celebrati collettivamente e del passaggio dalla adolescenza alla virilità!
In questa occasione in tutto il mondo celtico venivano accesi grandi fuochi sulle colline.
Beltaine era la stagione di tutti gli inizi.
A Beltaine era contrapposta, sulla ruota delle stagioni, per il credo celtico in un equilibrio cosmico, la festa di Samhain, che, cadendo il 1° Novembre, dava inizio alla stagione delle cose finite, come Beltaine dava inizio alla stagione della rinascita.
Durante Samhain si risolvevano le dispute e si punivano i crimini, si pagavano i debiti e si restituivano i vasi di coccio rotti o sbrecciati alla terra, la Grande Madre, dalla quale erano stati ricavati.
A riprova dello stupendo equilibrio che i Celti mantenevano con l'ambiente in cui vivevano, esistevano nella cosmogonia celtica ben tre differenti divinità a vigilare sulle condizioni delle acque, elemento fondamentale per qualsiasi forma di vita.
Borvo, dio delle sorgenti; Sequana, dea dei torrenti e di tutti i corsi d'acqua in generale, infine Sulis, dea delle acque medicamentose (sulfuree ecc ).
Ancora oggi, nella città di Bath, nel Sud dell'Inghilterra, è possibile visitare lo stabilimento termale costruito dai romani sul precedente tempio celtico.
E' significativo notare che i romani avevano dato a questa sorgente il nome di Acquae Sulis, accettando con questa latinizzazione una divinità non romana ma celtica: Sulis, appunto.
A regolare i rapporti tra le schiere celesti e la quotidianità della tribù provvedevano i Druidi, figure nodali della struttura sociale dei Celti.
"Gallia in tres partes divisa est": con queste parole comincia l'opera che più di ogni altra ci ha tramandato informazioni su questa inquietante casta dalle caratteristiche sacerdotali, anche se questo termine, vedremo poi, risulterà essere troppo restrittivo.
È Cesare, infatti, a fornirci nella sua opera sulla guerra condotta oltralpe, a Nord della Provincia, le informazioni più complete sulla esatta collocazione e sulla funzione dei Druidi nella società gallica della sua epoca.
Rappresentanti esclusivi dell'elite intellettuale, essi venivano quindi prevalentemente reclutati nei ranghi della nobiltà e godevano di privilegi particolari, come l'esenzione dai tributi e dall'obbligo del servizio in armi.
Il caso del notabile della tribù degli Edui, Divitiacus (o Diviciacus), conosciuto come Druido grazie ad un testo di Cicerone, mostra che essi potevano tuttavia portare le armi come gli altri comuni componenti della tribù; per lo più, però, essi portavano su una lunga tunica bianca con cappuccio, al centro della cintura, un largo pugnale di bronzo dal manico d'oro, poggiante sulla Linea Alba, e sul petto, legato ad una catena d'oro, un Triskel dello stesso nobile metallo, raffigurante gli elementi primordiali (acqua, fuoco e terra), affinchè chiunque potesse distinguere a vista il loro rango.
Rappresentanti come detto la casta "sacerdotale", erano quindi socialmente potentissimi, data l'importanza dalla connotazione veramente ossessiva del mondo religioso presso la cultura celtica.
Gli interessi dei Druidi spaziavano infatti su tutti i momenti pubblici oltre che privati della vita della comunità.
Erano altresì i custodi riconosciuti della tradizione orale dei testi religiosi, dei miti, più in generale del sapere.
La loro formazione durava molto a lungo; essi dedicavano infatti circa venti anni all'apprendimento mnemonico dei testi sacri che la predetta interdizione di carattere religioso vietava di conservare in forma scritta.
I Druidi conoscevano però la scrittura e, sempre secondo Cesare, usavano l'alfabeto preso a prestito dai Greci "per gli altri affari, sia pubblici che privati" (De Bello Gallico, VI, 14).
Tra i compiti precipui della classe druidica rientravano, quali unici rappresentanti della funzione sacrale, il presiedere ed eseguire i sacrifìci, oltre ad officiare i molteplici riti che assicuravano un buon svolgimento delle pratiche religiose, nonché la raccolta e l'interpretazione dei vaticinii, e non ultimo l'impartizione di diversi livelli di cultura ai membri della tribù.
Discorso a parte merita l'attenzione che i Druidi dedicavano ai giovani particolarmente dotati e che potenzialmente potevano entrare a far parte della casta druidica.
Essi, i soli a conoscere la natura degli dèi, erano gli intermediari tra il mondo della umana quotidianità e il mondo parallelo dove sovrano regnava il soprannaturale.
Poiché detenevano il totale controllo del sapere fondamentale, i Druidi potevano perpetuare una concezione dell'uomo e dell'universo contenuta in una dottrina dalle connotazioni esoteriche che ancor oggi ci è rimasta sconosciuta.
Dai pochi passi pervenutici di autori antichi che fanno riferimento alle convinzioni escatologiche dei Druidi si comprende che per essi la vita dell'anima non si interrompeva con la morte dell'individuo, ma continuava, con due possibili alternative.
Secondo la prima la vita continuava in un altro mondo, nettamente separato da quello dei vivi, col quale però poteva entrare in contatto durante la notte di Samhain, precedentemente citata.
Questa notte era considerata un intervallo tra la fine dell'anno vecchio e l'inizio di quello nuovo, in cui il tempo si distorceva e tutto era possibile.
Sono interessanti i riferimenti con la mitteleuropea notte di Ognissanti e la tradizione folkloristica gallese dell'Ora di Arawn (l'alba), in cui tutto è sfumato e grigio, e le ombre del Regno dei Vivi e del Regno dei Morti si confondono, sovrapponendosi.
Nella seconda alternativa invece la vita continuava sulla terra tramite la reincarnazione dell'anima, che equivale ad una nuova nascita (ed anche qui balza alla memoria un'altra reminiscenza, quella della metempsicosi, secondo la tradizione vedica della trasmigrazione delle anime).
Essendo il popolo celtico profondamente religioso, per i Druidi era naturale pensare che si dovesse fare qualsiasi cosa per garantire il buon andamento dell'Universo.
Non esitavano perciò a far ricorso anche a sacrifici umani, qualora la situazione contingente lo imponeva, anche se ciò accadeva tuttavia molto raramente.
Tra questi, il più raccapricciante doveva senz'altro essere rappresentato dal sacrificio del manichino di vimini.
I prigionieri (guerrieri sconfitti in battaglia, poiché ai Celti, contrariamente ai Romani, ai Greci e ad altri popoli più "civili" era sconosciuto l'uso di porre in schiavitù altri esseri umani), venivano rinchiusi in gabbie di vimini tenuti insieme da lacci di cuoio.
Dopo aver dato fuoco alla legna accatastata sotto la gabbia, o le gabbie, nelle fiamme venivano gettate polveri particolari ed erbe umide che provocavano un denso fumo che aveva lo scopo di soffocare i prigionieri, prima che le fiamme li raggiungessero, per impedirne la fuga in caso di smembramento della gabbia, e per risparmiare loro, al contempo, inutili ed atroci sofferenze.
Chi ha avuto l'occasione di assistere al film di Ken Russel dal titolo "I Diavoli", tratto dal libro "I Diavoli di Loudun", ricorderà questo particolare del fumo provocato ad arte per soffocare il giustiziato.
Altro particolare, il rito della gabbia di vimini è stato rappresentato nel film "Thè Wicker Man", del regista Robin Hardy, girato nel 1973.
Oltre a questo raccapricciante aspetto della loro cultura, Cesare riferisce inoltre nella sua opera del grande timore dei Galli di essere messi al bando dai riti sacrificali in caso di disobbedienza alle decisioni giuridiche dei Druidi.
In pratica, per i Druidi diveniva un grave pericolo per la comunità colui che non ottemperava alle prescrizioni rituali.
Per proteggersene, era quindi necessario che l'intera tribù troncasse ogni legame con il malcapitato che. veniva privato oltretutto della stessa esistenza sociale.
Definito dai Galli col titolo di "Ordine dei Saggi", la struttura della casta druidica prevedeva diversi rami di competenza:
i Bardi, considerati gli storici della tribù, avevano il compito di raccogliere e tramandare alle nuove generazioni le tradizioni popolari e la storia della tribù, oltre a comporre canzoni epiche su un personaggio o su un fatto particolarmente importante;
i Vati erano profeti, in grado di prevedere avvenimenti non ancora accaduti;
i Sacrificatori, ai quali spettava officiare riti sacrificali nei quali venivano impiegati ammali o addirittura esseri umani, come nel caso del citato rito della gabbia di vimini;
i Veggenti, dalle caratteristiche simili a quelle dei Vati;
gli Esortatori, che con la loro presenza favorivano il contatto con il mondo ultraterreno;
i Guaritori, paragonabili agli uomini che praticavano la medicina naturale nell'antichità, ed infine i Druidi veri e propri, raccolti sotto l'autorità del Capo Druido, che avevano il compito di mantenere in armonia l'uomo, la Terra e l'Aldilà; le tre cose erano inestricabilmente intrecciate e dovevano rimanere in equilibrio se non si voleva incorrere nella catastrofe.
Particolare degno di nota, il Capo Druido aveva autorità su ogni Druido di qualsiasi tribù dell'egemonia celtica, anche la più lontana, e veniva eletto nel corso di una cerimonia segretissima, nella grande sacra foresta dei Carnuti, nel cuore della Gallia.
A differenza dei Romani, che ritenevano erroneamente i Druidi semplici Sacerdoti, i Greci li definivano più correttamente col termine di Filosofi Naturali o Morali, per la loro propensione a credere, come Pitagora, in una continuità della vita dell'anima dopo il distacco dal corpo dovuto alla morte.
Diodoro Siculo, fervido sostenitore dei paralleli tra la mistica pitagorica e la fede celtica, definiva infatti "filosofi" i Druidi, ai quali attribuiva mirabili facoltà.
Secondo lo stesso Diodoro, essi erano esperti di cose divine, in quanto erano capaci di intendere e parlare la lingua dei celesti.
I Druidi ritenevano tra l'altro che fosse la testa la parte più importante dell'essere umano, perché vi indovinavano la sede dove si formavano i pensieri.
E' "normale" quindi che i guerrieri recidessero le teste dei nemici sconfitti in battaglia e le esibissero, a grappoli, come trofeo sulla porta delle loro capanne.
Apprendiamo da Strabone che Posidonio, greco, storiografo e viaggiatore, si sentì quasi venir meno alla vista di alcuni guerrieri Celti lanciati a galoppo
sfrenato sulle loro cavalcature al cui morso erano appese intere corone di teste mozze.
La storia ci tramanda notizia dell'onore cui fu fatto oggetto Lucio Postumio Albinio, ucciso in un'imboscata poco lontano, dall'odierna Cento, piccolo centro della nostra regione, dove un tempo si estendeva la malsana Selva Litana.
Il suo corpo, dato il suo rango ed il suo valore, fu consegnato ai Druidi che ne recisero la testa, la svuotarono e ne laminarono il cranio con foglie d'oro.
Il teschio così trattato venne poi usato, macabro boccale, dagli stessi Druidi dell'antica Bononia nei loro riti, quando la città si estendeva dall'odierno viale Aldini alle Due Torri.
Fu Strabone a diffondere il termine "Druido", anche se non definisce con precisione la posizione di chi si fregiava di tale titolo.
Particolare degno di nota, Platone aveva già concepito l'idea di una comunità retta e governata da filosofi; è stupefacente ed al tempo stesso inquietante pensare che una aggregazione di tribù barbariche appartenenti allo stesso ceppo filogenetico, l'avessero già posta in essere con efficacia.
A conferma di ciò, l'ordinamento sociale celtico era basato su una dottrina squisitamente consolante, dove la vita non finiva con la morte del corpo, ma la stessa morte era considerata una sorta di sublimazione, cui seguiva un innalzamento dello spirito ad un livello superiore di esistenza prima di reincarnarsi in un altro corpo.
Questa dottrina, molto simile ai miti vedici della trasmigrazione delle anime, spiega in parte di quale importanza fosse investita la figura del Druido.
Ricordiamo infatti che l'autorità del Capo Druido era al di sopra di quella dei numerosi Re celti; allo stesso modo, l'egemonia del potere politico e sociale della loro casta si estendeva in modo panceltico, dal Nord Europa alla Spagna al Vicino Oriente, mentre il potere dello stesso Re era limitato alla sola tribù sottoposta alla sua autorità ed al suo territorio.
Solo Vercingetorige, re della tribù degli Arverni, costituendo per la prima volta nella storia dei Celti una vera e propria Federazione innalzò la propria autorità al pari di quella dei druidi.
Il precedente riferimento ai miti vedici non era casuale.
Si pensa infatti che il termine "Druido" derivi dal greco "drys", quercia, e dall'indeuropeo "wid", sapere o scienza: avremmo quindi il titolo improprio di "querciòloghi", da cui la loro stretta connessione con i boschi sacri, veri templi all'aperto.
Facciamo ora una piccola digressione.
Siamo a teatro.
Si alza il sipario, e vediamo il "bosco sacro dei Druidi".
Al centro del proscenio una quercia; tra le sue radici, il magico tempio Irminsul.
Ai piedi del tempio, una piatta pietra funge da altare.
Tutt'intorno colline boscose.
E' notte.
Tra la boscaglia si intravvedono fuochi lontani.
Tra clamori di feste entrano i Galli.
Li segue la processione dei Druidi bianco-vestiti.
Oroveso, loro capo, comincia a cantare : "Ite sul colle, o Druidi/ite a spiar né cieli/quando il suo disco argenteo/la nuova luna sveli.
E il premier sorriso/del virginal suo viso/tre volte annunci il mistico/bronzo sacerdotal".
L'annuncio strappa al coro una domanda . "II sacro vischio a mietere Norma verrà ?".
Oroveso lo conferma solennemente.
E già nella scena seguente sua figlia. Norma, s'impadronisce, con l'aiuto di un falcetto d'oro, della pianta parassita.
Questa scena, descritta da Vincenzo Bellini nella sua "Norma" in prima esecuzione alla Scala di Milano nel 1831, rispecchia fantasticamente questo mistico mondo, impregnata di tutti gli accessori cari ad un pubblico assetato di romanticismo: la quercia, la luna, il sarastro celtico ed il tempio di Irminsul in Vestfalia, il rito della raccolta del vischio, ritenuto dai Druidi il rimedio per combattere ogni forma del Male, che sempre trama per sconvolgere l'ordine cosmico.
Il giorno 6 d'ogni mese, scrive Plinio il Vecchio nella sua "De Rerum Natura", i Celti celebravano una gran festa.
I Druidi bianco-vestiti montavano per l'occasione sulle querce per recidere con un falcetto d'oro il vischio che ponevano su candidi teli di lino sorrettì ai quattro angoli da altrettanti allievi druidi.
Questa scena è raffigurata con impressionante realismo nel quadro "La cueillette du gui" di Henry Motte.
Dopodiché venivano sacrificati due tori bianchi.
Cosa significhi questo solenne raccolto, è stato dibattuto sotto tutti i possibili aspetti.
La spiegazione più plausibile è che il vischio servisse ad usi medicinali.
Spremuto di fresco, infatti, esso dà un succo contenente Colina, Acetilcolina e Viscotossina, tre sostanze che abbassano temporaneamente la pressione sanguigna.
Le foglie di vischio, inoltre, ridotte in poltiglia, leniscono i dolori dell'ulcera maligna.
Questa pianticella è ricordata anche nella leggenda di Loki, il più scaltro degli dèi germani, che provoca la morte del solare Baldur, o Balder, con un rametto di vischio, appunto.
Secondo Plinio, infatti, i Druidi erano guaritori naturali molto abili.
Uno degli aspetti più interessanti della loro conoscenza era quello del tempo e del calendario.
Per questo scopo, si pensa, vennero costruiti i grandi cerchi megalitici che ancora oggi, dopo 4000 anni, possiamo ammirare nelle pianure del Nord Europa.
Il più famoso è certamente quello di Stonehenge, nella piana di Salisbury, in Inghilterra.
Purtroppo, dopo la conquista delle Gallie ad opera di Cesare, avvenuta nel 50 A.C., la progressiva disaffezione dello strato superiore della popolazione per le lingue e l'insegnamento orale tradizionale dei Druidi provocò l'inesorabile degrado della cultura celtica.
Lo stesso Cesare, conscio del pericolo politico costituito dai Druidi organizzò e pose in atto un sistematico e totale annientamento di questa casta, che si accompagnò con la distruzione dei loro templi, iniziato in Gallia e conclusosi in Britannia con il massacro dell'Isola di Iona, ultimo rifugio del druidismo
celtico.
Così, verso la fine del II secolo d.C., nonostante la proibizione rituale di usare la scrittura per tutto ciò che era dominio del sacro, fu necessario incidere su una lastra di bronzo il calendario gallico.
Si tratta della celebre Tavola Bronzea di Coligny, risalente al II secolo D.C., conservata al Museo della Civiltà Gallo-Romana di Lione.
Questa tavola è la registrazione di cinque anni successivi che ci fanno conoscere il complesso modello matematico elaborato dai Druidi, con secolari osservazioni, per il computo del tempo, basato sulla correzione ciclica di un anno lunare di 355 giorni.
Questo sistema veniva ormai utilizzato solo per fini liturgici mentre l'anno civile seguiva ormai il calendario romano: insigne monumento della scienza dei Druidi, delle loro conoscenze astronomiche e della loro capacità di elaborarne dei modelli matematici, quel calendario non poteva più, evidentemente, essere gestito con i mezzi tradizionali di apprendimento mnemonico.
Quando il cristianesimo ne proclamerà l'interdetto, la cosmogonia celtica sarà ormai soltanto folklore rurale, oggetto di disinteresse per una élite nutrita della cultura greco-latina.
E sarà allora nel mondo insulare, meno contaminato dall'influenza di Roma o addirittura vergine, che i monaci cristiani potranno ancora disporre di una tradizione orale degradata, ma ancora degna di essere raccolta: la sola testimonianza scritta del mondo spirituale dei celti antichi.
Una testimonianza che, così come la loro arte, conferma il ruolo originario e importante che essi ebbero nella formazione della cultura europea.

CONCLUSIONI

Molti secoli, tanti, sono passati da allora, ma nonostante tutto, il Druidismo non si è mai estinto; esso sopravvive ancora oggi, nella sezione blu della bandiera francese, che Napoleone volle per ricordare la grandezza della Gallia antica, in ricordo del blu che ornava le vesti ed i volti dei Druidi.
Sopravvive ancora sotto le fondamenta della Cattedrale di Chartres, capoluogo del 28° Arrondissement dell'Eure-et-Loire, sulla riva sinistra del fiume Eure.
Chartres, l'antica Austricum, capitale dei Carnuti, centro del culto druidico in Gallia, conquistata da Cesare nel I secolo A.C.
La Cattedrale di Notre-Dame, costruita tra il 1194 ed il 1229, sorge sul luogo dove si trovava l'antica Foresta Sacra nella quale veniva eletto con rito segretissimo il Capo Druido.
Oggi non sono più le secolari querce a tendere i possenti rami verso il cielo, ma sono le colonne gotiche della navata, e i raggi del sole, il dio Lug, non risplendono più sulle verdi chiome, ma incendiano le colorate vetrate e il rosone.
Noi oggi amiamo pensare che le ultime parole dell'ultimo Druido, conscio dell'approssimarsi della fine, e della successiva liberazione, siano state, guardando verso il cielo: "ci ha rapiti il Sole".

FINE

23 giugno 2004
ANTONIETTA TOPA e ANTONIO SIMONE

 


Bibliografia

E. VALTON - "I Mabinogion", Garzanti-Vallardi Ed., Milano, 1980;
G. HERM - "Il mistero dei Celti", Garzanti Ed., Milano, 1981;
AA.VV. - "I Celti", Bompiani Ed., Milano, 1991;
M. LLYWELYN - "II potere dei Druidi", Casa Ed. Nord, Milano, 1992.

Per il quadro di Henry Motte, vedere "Archipel 2", p. 22, Les Editìons Didier, Paris, 1983

 

           
Home    |    Progetto Tolkien    |    Chi Siamo     |    Copyright    |    Aiuto   |   Scrivici
© 1999- 2004 Eldalie.it Spazio Offerto da Gilda Anacronisti